sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Mario Chiavario

Avvenire, 30 gennaio 2024

Qualche giorno fa le immagini di una sfilata di toghe rosse hanno evidenziato l’aspetto più spettacolare di un cerimoniale d’altri tempi: si trattava, come si sa, dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte di Cassazione, cui avrebbe fatto seguito, dopo beve tempo, quella nelle sedi delle 26 Corti d’appello. E ci si può domandare se, a prescindere dall’effetto scenico, non prevalga il rischio di ridurre tali eventi a “un rituale solenne nella forma, ma sostanzialmente ripetitivo e, quindi, inutile”, avente, come unica alternativa a sua volta negativa, il trasformarli in cahiers de doléances.

Ad averlo detto non è stato qualche irriverente commentatore, ma Margherita Cassano, Prima presidente della Suprema Corte, nella sua relazione d’apertura. La storia di queste cerimonie può comunque suggerire qualcosa. Fino al 2005, invero, gli unici ad avervi voce effettiva erano i titolari delle Procure generali istituite presso le Corti, ossia i capi dei più alti uffici del pubblico ministero: il che suscitava vibrate contestazioni pure all’interno della magistratura, per il pericolo di unilateralismo nella illustrazione di dati e problemi.

In quell’anno, il quadro veniva perciò sostanzialmente modificato, rompendo il tradizionale monopolio. A tenere le relazioni sono i presidenti delle corti, in assemblee convocate ad hoc, in cui hanno diritto di parola, oltre ai procuratori generali, il ministro della giustizia (o, a rappresentarlo nelle sedi locali, persone appartenenti al suo staff), il vicepresidente del Csm (o, sul territorio, altri membri del Consiglio), così come i rappresentanti dell’avvocatura, statale e privata. E nessuno, oggi, potrebbe volere un ritorno all’indietro. Si è dunque arrivati a una pluralità di voci. Ed è un particolare non trascurabile e di per sé positivo.

Ciò posto, anche quest’anno il panorama delle ventisei inaugurazioni distrettuali si è presentato variegato e non privo di dissensi anche radicali, specialmente in rapporto a scelte normative o gestionali, attuate o progettate, dal governo in carica. Il linguaggio, però, dall’una e dall’altra parte, è suonato per lo più lontano da asprezze: in qualche misura, giustificabili altrove; sicuramente, assai meno qui. Quanto alla giornata inaugurale in Cassazione, svoltasi alla presenza del Presidente della Repubblica, sono da sottolineare, tra le altre, due espressioni di moderazione per niente affatto di comodo.

Da un lato, l’equilibrio con cui Luigi Salvato, Procuratore generale, ha trattato temi tra i più controversi come quelli del principio di obbligatorietà dell’azione penale e della stessa collocazione funzionale e istituzionale del pubblico ministero: senza adagiarsi su pregiudiziali difese dell’esistente ma senza sconti, comunque, per tentativi di ledere l’indipendenza della magistratura requirente. D’altro lato, l’impegno con cui Margherita Cassano ha tenuto fede a un proposito: cooperare a rendere l’assemblea un autentico “momento di riflessione e di confronto”, legando la trasmissione di “un messaggio di speranza” non a un ingenuo ottimismo ma sempre e soltanto a una “concretezza di dati”, strada maestra per “contribuire a rinsaldare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni”.

A riscontro, tra i primi risultati dell’“organico intervento riformatore del 2022” (c.d. legge Cartabia), l’incremento della mediazione in sede civile, e, in penale, la “regolamentazione compiuta della giustizia riparativa” e i progressi nel campo della riduzione della durata dei processi. La speranza, d’altronde, non fa chiudere gli occhi di fronte a persistenti, gravi criticità della giustizia italiana. Di metodo: così, quando lamenta che la “rapida successione di leggi, soprattutto se ispirate da logiche settoriali, determina i presupposti di possibili incoerenze del sistema e pesanti ricadute sul funzionamento della giustizia”.

E di merito, avendo specifico riguardo a tre esempi tra i più dolorosi: situazione carceraria ed esecuzione di pene; infortuni sul lavoro; femminicidi. Del resto, speranza e fiducia non possono mai coprire tragiche realtà. Ce lo ha ricordato, benché conclusa dalla fine di un incubo, una vicenda agghiacciante, tornata in primo piano proprio in coincidenza con le cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario. È quella vissuta per trentatré anni dal pastore sardo Beniamino Zuncheddu, ingiustamente condannato per un feroce delitto in base a una testimonianza non veritiera.

Ora è stato assolto, a seguito di una revisione del processo, al cui innesco - altra coincidenza non voluta - ha dato un apporto decisivo, quando reggeva la Procura generale di Cagliari, un’altra protagonista di queste inaugurazioni; Francesca Nanni, oggi titolare della stessa funzione a Milano. Nulla, infatti, potrà mai restituire a Zuncheddu gli anni di vita spezzata, alle cui sofferenze si è aggiunta la drammatica beffa del non avere potuto uscire anticipatamente di prigione grazie a un “ravvedimento” pur sollecitatogli, non avendo lui nulla di cui “ravvedersi”.