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di Riccardo Polidoro

Il Dubbio, 6 marzo 2024

Riccardo Polidoro è stato, per il Dubbio, un compagno di battaglia. Resterà un esempio, resterà con la sua intelligenza e il suo generoso impegno nel pretendere un sistema penitenziario degno degli esseri umani, della Costituzione e dello Stato di diritto. Di fronte alla funesta spoon river dei suicidi dietro le sbarre, che nelle prime settimane dell’anno ha fatto registrare una sequenza terribile, con 21 vittime, lo scorso 15 febbraio Riccardo aveva firmato sul Dubbio un articolo indignato e combattivo: è il testamento che ci lascia e che qui vi riproponiamo con commossa gratitudine.

I trattori hanno invaso le strade, bloccato il traffico tra il consenso della maggior parte dei cittadini, che, nonostante i disagi, hanno compreso e condiviso le ragioni della protesta che li coinvolge. Grande visibilità sui media alla lunga marcia, fino al nazional-popolare palcoscenico di Sanremo dove è stato letto il comunicato degli agricoltori.

Quanto accaduto deve farci riflettere sull’importanza della conoscenza dei principi essenziali della convivenza sociale. I prodotti della terra sono indispensabili, per questo la popolazione è stata al fianco degli imponenti mezzi dalle grandi ruote che hanno bloccato le strade. Chi lavora la terra non deve essere sottopagato e le aziende del settore vanno sostenute e non sfruttate. È questione economica e prima ancora di coscienza! Coscienza che viene oscurata in tema di sicurezza sociale, più volte invocata e per la quale si usano rimedi per la maggior parte repressivi, a cui l’opinione pubblica plaude senza comprenderne la limitata efficacia.

Si preferisce la facile punizione, invece di garantire un percorso di cambiamento e di crescita. È quanto avviene, contra legem, nei nostri istituti di pena, in parte fatiscenti e in cui i detenuti, nella maggior parte dei casi, subiscono ingiustamente un trattamento disumano e degradante, e il personale dell’amministrazione penitenziaria lavora in condizioni aberranti.

L’opinione pubblica, che è lasciata in una strumentale ignoranza, pur consapevole che dentro le mura di un carcere e nei centri di prima accoglienza si viola costantemente la legge, chiede solo di “buttare la chiave”. La drammatica emergenza che stiamo vivendo in questi giorni, con un suicidio ogni 48 ore, 200 tentativi e migliaia di atti di autolesionismo che vedono protagonisti quasi sempre giovani detenuti, da poco entrati in carcere ovvero vicini alla liberazione, dovrebbe far comprendere a tutti che è, invece, necessaria un’immediata inversione di tendenza.

La strage silenziosa e ignorata ha visto, il 13 febbraio scorso, il suicidio di un sessantaquattrenne nell’istituto penitenziario Don Bosco di Pisa, il diciannovesimo. Un uomo che godeva del regime di semilibertà, che usciva dal carcere per andare a lavorare e poi rientrava, soggiornando in un reparto dedicato a tali detenuti. Una volta dentro le mura, si è stretto una corda al collo, impiccandosi. Episodio che evidenzia l’assoluta assenza di attenzione sullo stato psico-fisico dei detenuti, anche di quelli che stanno per ritornare in libertà. Il malessere la fa da padrone e non concede sconti.

Il giorno dopo, il ventesimo suicidio nel carcere di Lecce. Un uomo di 45 anni si è impiccato alle sbarre della sua stanza. L’ozio, la convivenza in piccoli spazi spesso fatiscenti e con servizi igienici inadeguati, l’assenza di attività educative e lavorative, i rari contatti con la famiglia, l’abbandono pur in presenza di patologie psichiatriche evidenti, i soprusi e le angherie subite, portano irrimediabilmente alla disperazione.

Si muore! E se non si muore si resiste e una volta liberi si torna a delinquere, perché nulla di diverso è stato insegnato. L’unica possibilità di protesta per il detenuto è il rifiuto del cibo, che aggrava ancora di più il suo stato di salute. Perfino la battitura delle sbarre fatta con pentole e oggetti di ferro, manifestazione non violenta messa in atto per richiamare l’attenzione verso le loro disumane condizioni, nella speranza che il rumore valichi le mura del carcere, è stata stigmatizzata e scoraggiata per non dire espressamente impedita.

Il cittadino che chiede costantemente maggiore sicurezza deve comprendere che il suo posto deve essere in prima linea a protestare per le continue violazioni di legge perpetrate nei nostri istituti di pena, che non “rieducano” il detenuto, ma lo rendono peggiore rispetto al suo ingresso in carcere. Più sarà lunga la condanna, più il rischio di recidiva è certo. Nel silenzio della Magistratura associata, l’isolata denuncia dell’Avvocatura, unitamente a quella di meritorie associazioni e di alcuni (pochissimi) politici, dovrebbe trovare unanime consenso nell’opinione pubblica e costringere il governo a far rispettare la legge anche negli istituti di pena, che non vivono un’extraterritorialità normativa.

Più volte in questi anni l’Unione Camere Penali è giunta a proclamare l’astensione dalle udienze, per protestare sull’inerzia della Politica in merito all’Esecuzione penale, lo ha fatto anche recentemente e continuerà a farlo dinanzi all’assenza di immediati provvedimenti che possano far diminuire il sovraffollamento, e se non si realizzi una riforma strutturale del sistema penitenziario, peraltro già pronta per essere attuata e frutto del lavoro delle Commissioni ministeriali, dopo quello degli Stati Generali, a seguito della condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia.

Nel documento dell’Ucpi “Non c’è più tempo” si ribadisce l’inerzia del governo dinanzi ai continui suicidi e a una situazione non più sostenibile. I rimedi immaginati per affrontare l’emergenza non solo sono inutili e dannosi, ma sono altresì irrealizzabili. In assenza di provvedimenti, quali modalità di protesta attuare? Gli avvocati non hanno trattori e i blocchi stradali non sarebbero un bel vedere in un Paese civile. È necessario informare correttamente l’opinione pubblica, per farle comprendere l’importanza della protesta, affinché venga condivisa e sostenuta, per una pena scontata legalmente in modo da restituire alla società una persona migliore. Le risposte date, nei giorni scorsi, dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria al Presidente della Repubblica, che lo aveva convocato perché preoccupato del numero crescente dei suicidi, smentiscono esplicitamente - come era chiaro e ovvio già a tutti - la possibilità che quanto annunciato dal governo per affrontare l’emergenza possa realizzarsi. La costruzione di nuove carceri ovvero l’uso di caserme dismesse non è praticabile perché mancano già ora risorse umane e finanziarie per far funzionare le strutture esistenti, senza contare poi i tempi di realizzazione, mentre l’emergenza è ora.

Diminuiscono i posti disponibili e i detenuti aumentano con una frequenza di 400 unità al mese. Certamente nessun detenuto salirà mai sul palco di Sanremo, né l’onnipresente Amadeus leggerà un loro comunicato. I sessantamila detenuti sono e devono restare invisibili, abbandonati alle loro ingiuste sofferenze, mentre il Paese si scandalizza per un’imputata portata in ceppi in un’aula di Giustizia in un’altra nazione e tace sui bambini di pochi anni o addirittura mesi detenuti nelle nostre carceri insieme alle loro mamme. È, dunque, essenziale educare l’opinione pubblica e non solo “rieducare” i detenuti, come recita l’articolo 27 della Costituzione. I Penalisti italiani continueranno a farlo, nelle scuole, nelle Università, dovunque sia possibile, diffondendo la cultura della legalità che non ha confini e deve entrare immediatamente anche negli istituti di pena.