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di Melani Manel Perera

La Repubblica, 27 maggio 2023

“Siamo esseri umani in un limbo non numeri”. Un gruppo di rifugiati affidato alle cure dell’Unhcr chiede di rilanciare, ma soprattutto velocizzare, “il processo di ricollocamento in una nazione terza”, per scongiurare ulteriori sofferenze. Per ribadire la richiesta, sono scesi in piazza il 23 maggio scorso di fronte alla sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nella capitale dello Sri Lanka, Colombo, per sensibilizzare le autorità locali e la comunità internazionale sulla loro sorte, da tempo sospesa come in un limbo.

“Prendete una decisione il più in fretta possibile - recitava lo slogan impresso su un cartello - e non rimandateci indietro, incontro a morte certa”.

In prima fila, i profughi pakistani. In prima fila, a guidare la protesta vi era un gruppo di profughi pakistani, da tempo ricollocati sull’isola e in attesa (sinora) vana di una sistemazione definitiva. Secondo le stime dell’attivista Ruki Fernando, ad oggi in Sri Lanka vi sono circa 800 rifugiati provenienti in maggioranza da Pakistan, Afghanistan, Rohingya dal Myanmar, oltre a gruppi originari dello Yemen, della Siria e dalla Nigeria. I più vivono a Negombo, oltre a Panadura, Dehiwela e Mount Lavinia.

“Siamo esseri umani, non numeri”. I manifestanti hanno voluto ricordate che “i rifugiati sono esseri umani, non numeri. Garantiteci una sistemazione” come recitava una delle tante scritte impresse sui cartelloni. Un altro affermava che “Rimandandoci indietro, state violando il nostro diritto di vivere” e ancora “Non dividete i rifugiati in comunità diverse. Tutti siamo uguali e meritiamo dignità e rispetto”.

Alcuni non hanno risparmiato attacchi diretti all’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, che “deve smetterla di lasciarci in attesa di una risposta” che non è mai arrivata negli anni. “Per l’Unhcr - afferma ad AsiaNews una manifestante proveniente dal Pakistan - non siamo una priorità, ma quanto possiamo aspettare? Sono già sette anni che siamo qui in Sri Lanka in attesa. Ne abbiamo abbastanza, vogliamo giustizia”. “Abbiamo bambini piccoli e nemmeno loro - aggiunge la donna - hanno un futuro. Non hanno scuole qui. Nemmeno io conosco il mio futuro. Chiediamo di accelerare il nostro ricollocamento”.

Un’altra testimonianza. Una seconda donna, anch’essa pakistana, dice di trovarsi da 10 anni in Sri Lanka e non ha ancora prospettive certe sul suo futuro o una nazione in cui andare. “Qui non lavoriamo. I nostri figli non vanno a scuola e non hanno un’istruzione” denuncia, aggiungendo che il timore più grande è “una chiusura a breve dell’ufficio Unhcr” e “senza un loro sostegno, che ne sarà di noi?” si chiede disperata.

Un altro ancora, sempre dal Pakistan, racconta del padre morto in questo tempo nell’attesa vana di andare in un’altra nazione, della madre che soffre di diabete e il figlio 14enne anch’esso soggetto a pressione alta, che sopravvive grazie a medicine assunte mattina e sera. “Per favore, mandaci - esclama l’uomo - in un Paese del terzo mondo. Qui non possiamo lavorare. Ed è molto difficile comprare generi alimentari. Il cibo, le medicine e l’affitto della casa sono molto alti. Non possiamo vivere qui”.

Alcuni aspettano da anni. “Una delle richieste di queste persone - spiega l’attivista Ruki Fernando - è che la decisione sia presa il prima possibile. Alcuni aspettano da anni una sistemazione definitiva. Ciò significa che non sanno se otterranno asilo o meno”.

Ad alimentare paure, timori e incertezza sul futuro, conclude, la notizia anticipata dagli stessi funzionari Unhcr di una possibile chiusura della sede Onu o, comunque, di un forte ridimensionamento del sostegno e degli aiuti.