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di Emanuela Minucci

La Stampa, 10 luglio 2023

Il carcere è un’organizzazione da smantellare, perché non più salvabile né aggiustabile. Lo propone la scrittrice, avvocata e attivista Derecka Purnell nel suo libro “Come sono diventata abolizionista” (Fandango).

Il 13 luglio saranno dieci anni dall’assoluzione di George Zimmerman, il vigilante che nel febbraio 2012 uccise in Florida il diciasettenne Trayvon Martin dando inizio a una serie di proteste contro la polizia. Un problema, quello della violenza usata dalle forze dell’ordine verso ragazzi soprattutto neri che continua ad affliggere la società americana - e che è alla base anche dei recenti scontri in Francia, dopo l’uccisione di Nahel M., diciassettenne, a Nanterre - e che ha portato alcuni attivisti a proporre come soluzione di abolire la polizia.

Un’organizzazione da smantellare, perché non più salvabile né aggiustabile. Lo propone la scrittrice, avvocata e attivista Derecka Purnell nel suo libro “Come sono diventata abolizionista” (Fandango), una concezione che prende spunto non solo da posizioni intellettuali, ma che fonda le sue radici nelle sue esperienze di vita di donna nera cresciuta in un sobborgo povero di St. Louis. “Chiamare il 911 e chiedere l’aiuto della polizia era la soluzione un po’ per tutto”, spiega via Zoom raccontando della sua infanzia non facile in cui gli agenti in divisa sono sia i buoni, quelli che aiutano, ma anche i cattivi, quelli che allontanano lei e i fratelli dalla famiglia, o che stuprano nel quartiere o che si rendono protagonisti di episodi brutali. La polizia come un placebo, scrive, utilizzato dallo stesso governo federale che però non investe in ospedali, nel sistema educativo, nel creare benessere nelle comunità.

Abolizionisti non si nasce, ma si diventa. Lei come lo è diventata?

“Nella mia vita ho avuto idee diverse sulla polizia, ma dopo aver assistito per anni alla brutalità degli agenti mi sono messa a pensare e studiare, a leggere Angela Davis, Ruth Wilson Gilmore, Dylan Rodriguez, persone che sono state critiche nei confronti della schiavitù, del capitalismo e dello sfruttamento, che hanno messo in discussione la polizia e la sua funzione nella società. Da lì sono partite le mie domande: perché esiste la polizia? Perché ne abbiamo bisogno? Ci tiene davvero al sicuro? Negli Stati Uniti abbiamo circa un milione di poliziotti e uno dei tassi di violenza più alti al mondo. È chiaro che i conti non tornano”.

Negli Usa c’è consenso sul fatto che negli ultimi anni la polizia si sia troppo militarizzata e che spesso intervenga armata in situazioni in cui servirebbero altre figure professionali, ad esempio quando sono coinvolte persone con disturbi mentali. Da qui a dire che non ne abbiamo bisogno c’è molta differenza...

“La militarizzazione è un problema della polizia. Ma non è il problema con la polizia. Ed è vero, sono in molti a chiederne la demilitarizzazione, pensando sia quella la soluzione. Abbiamo bisogno non di poliziotti che abbiano una mentalità guerriera, ma di poliziotti che abbiano una mentalità da guardiani. Non voglio che la polizia - per quanto demilitarizzata e gentile - faccia il lavoro del capitalismo, del colonialismo e del razzismo. Voglio lavorare per eliminare queste realtà dalla società e per ridurre la nostra dipendenza dalla polizia. Finché la polizia rimarrà una fonte di riorganizzazione, si sceglierà di investire in essa invece di investire in tutta una serie di riforme per avvicinarsi più possibile a una vita sana e prospera”.

Obiezione che immagino facciano in molti: e gli omicidi?

“Il tasso di liquidazione significa quante volte la polizia arresta qualcuno in relazione a un crimine. Ebbene, in Usa è inferiore al 50 per cento. L’idea quindi che la polizia risolva i casi di omicidio è sbagliata. Secondo un altro studio, meno del 4 per cento delle chiamate che coinvolgono la polizia hanno meno violenza in risposta. Non credo che arriveremo mai a un mondo in cui ci saranno zero omicidi, non è realistico, ma credo si debba lavorare investendo in tutto quello di cui ho parlato prima in modo da ridurre gli omicidi. Quando arriveremo a, che so, cinquemila o duemila o mille o cinquanta, ecco, allora ci potremmo chiedere: cosa ne facciamo di queste 50 persone che hanno ucciso? Dare i nostri soldi alla polizia e alle carceri non ci aiuta ad arrivare lì, anzi ci distrae dal tipo di conversazione che dovremmo avere. In questo senso l’abolizione non è solo far sparire i poliziotti, è un metodo per aiutare una società violenta in cui è anche la polizia a perpetuare quella violenza”.

A essere per l’abolizione della polizia in Usa sono spesso i bianchi democratici che vivono in quartieri ricchi mentre le minoranze che vivono in quartieri degradati la polizia la vogliono eccome...

“La polizia viene dal colonialismo e dal capitalismo. Negli Stati Uniti venne ampliata per catturare persone che scappavano dalla schiavitù, che erano coinvolte in ribellioni o che stavano cercando di organizzare scioperi contro i propri datori di lavoro. Le persone che vengono protette dalla polizia sono ancora soprattutto i bianchi con ricchezze da proteggere. Le persone dei quartieri poveri e neri come quello in cui sono cresciuta, è vero che vogliono la polizia, ma vogliono anche molto altro. James Baldwin lo scriveva già negli anni Sessanta: “Chiedi ai neri se vogliono la polizia o vogliono la sicurezza. Ti risponderanno la sicurezza”. Il problema è quando si confondono le due cose”.

A Minneapolis dopo l’uccisione di George Floyd ci fu un referendum: i cittadini votarono per mantenere la polizia...

“Anche se quel referendum è fallito, credo che il successo sia che ne stiamo parlando, che ci sono organizzazioni e persone che stanno pensando, sognando, discutendo e combattendo per l’abolizione”.

Il suo attivismo per l’abolizione della polizia si sposa con quello per l’abolizione delle carceri?

“Nel 2018, conobbi Jordan Mazurek, coordinatore della campagna To Fight Toxic Prisons (Ftp), un collettivo che usa movimenti dal basso e azioni dirette per mettere in discussione il sistema carcerario in relazione alla giustizia ambientale e alla liberazione della terra. Come Ftp sostiene: “Tutte le prigioni sono tossiche - tossiche ambientalmente per chi sta al loro interno o per il terreno su cui poggiano, oppure tossiche socialmente per le nostre comunità, considerate usa e getta dal capitalismo, dal suprematismo bianco e dal colonialismo, e quindi prese di mira dal sistema punitivo penale”. Fight Toxic Prison mi ha aperto gli occhi sulla possibilità di fare attivismo abolizionista in parallelo a quello per la giustizia climatica. La combinazione di queste due campagne può diventare una meravigliosa attrattiva per chi già tiene alla giustizia climatica, ambientale o per le disabilità, ma è ancora curioso o scettico riguardo l’abolizione. Così facendo, si troverebbe un terreno comune per impedire alla polizia di rinchiudere le persone in celle allagate durante le catastrofi ambientali, o per negare a chiunque la possibilità di vivere o lavorare in aree dove si depositano rifiuti tossici. Dato che tali temi e campagne si intersecano con la giustizia ambientale, gli attivisti che si mobilitano principalmente in questi campi possono contribuire a rendere obsoleto il complesso carcerario-industriale”.