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di Carlo Baroni

Corriere della Sera, 4 agosto 2023

I nove giudici della Corte Suprema conservano ancora un anacronistico mandato a vita. Sono re senza corona. Non hanno tutti i privilegi dei sovrani assoluti ma quasi lo stesso potere immenso. A cominciare dal mandato che dura una vita. Possono dimettersi, è vero (ma di solito restano al loro posto anche quando sono malati). Sono i nove giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti. Custodi dell’unica autorità a cui devono rendere conto: la Costituzione.

Ma come gli arbitri che conoscono a menadito le regole del gioco possono sbagliare a fischiare un rigore o un fuorigioco. Senza nessuno a correggerli. Se non la propria coscienza. Che ci si augura sempre limpida. Non poterli mandare mai in pensione è stato motivo di forza per decenni, ora è fonte di debolezza per il Paese. L’aveva già capito Alexis de Tocqueville più di duecento anni fa quando scriveva profeticamente: “Il potere di questi giudici è illimitato, ma è un potere morale. Essi sono onnipotenti finché il popolo accetta di obbedire alla legge; non possono nulla quando la disprezza”.

Negli ultimi quindici anni sono tre i giudici morti durante il loro mandato. Uno, William Renhquist, addirittura da presidente e già molto malato. Impensabile in qualunque altra parte del mondo. I Padri fondatori con Alexander Hamilton in testa rimossero il problema. L’età media tre secoli fa era molto più bassa di ora. I giudici supremi con le loro sentenze hanno disegnato l’America, spesso, anticipandone i cambiamenti.

Senza alcuna sudditanza verso i presidenti che li hanno nominati. Perché l’inquilino della Casa Bianca un giorno o l’altro se ne dovrà andare, mentre loro restano. Ma qualcosa sta cambiando. In peggio. I giudici supremi sono diventati più vulnerabili ai desideri (ordini?) di chi li ha scelti. E tengono sempre meno conto di dove va l’America. La carica a vita rischia di trasformarsi in un boomerang pericoloso. E fa sempre più specie che nella nazione più avanzata sopravviva un retaggio così anacronistico.