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di Giuseppe Sarcina


Corriere della Sera, 1 giugno 2020

 

Viaggio nell'epicentro della rivolta, sul fiume simbolo dell'America: voci (infondate) di raduni del Klan, l'assalto al banco dei pegni. La paura tra epidemia e devastazioni. La Guardia Nazionale sembra aver ripreso il controllo di Minneapolis.

Nella notte tra sabato e domenica ancora qualche scontro e pochi incendi. Ma niente di paragonabile alle devastazioni dei giorni scorsi. Così ieri mattina il governatore Tim Walz si è presentato in conferenza stampa per "ringraziare i cittadini" che hanno contribuito a isolare "i vandali".

Minneapolis vive sentimenti contrastanti. I commercianti hanno sprangato tutto, proteggendo le vetrine con pannelli di truciolato. Il centro è deserto, non si trova neanche un caffè aperto. La combinazione tra la paura delle devastazioni e il virus (ieri oltre 600 nuovi casi in Minnesota) pare aver ibernato questa metropoli di 3,6 milioni di abitanti se si comprende anche la "città gemella" di St. Paul, sull'altra riva del Mississippi.

Si torna a respirare - Ma è una sensazione sbagliata. In questa domenica Minneapolis torna a respirare, a vibrare ancora di indignazione per l'omicidio di George Floyd, afroamericano di 46 anni. Le tv trasmettono nuovi video che inchiodano alle loro responsabilità criminali l'ex poliziotto Derek Chauvin e i tre agenti che erano con lui di pattuglia lunedì 25 maggio, un giorno destinato a rimanere nella storia recente del Paese. Chauvin, 44 anni, è in carcere con l'accusa di omicidio colposo. L'avvocato della famiglia di George chiede alla Procura di prevedere l'imputazione più grave: omicidio premeditato.

Il momento della politica - All'incrocio tra la Chicago Avenue e la 38 esima Strada il pastore Curtis Farar tiene la predica all'aperto, davanti a persone sedute a distanza e con l'accompagnamento di una band soul. È un religioso molto popolare nel quartiere. Tiene insieme dolore e rabbia, a pochi metri dai fiori, dalle candele, dai palloncini, dai disegni per George. Poco più in là, invece, ecco, finalmente, la politica. Perché gli scontri e le proteste di Minneapolis e ormai dell'America intera, da New York a Los Angeles, pongono domande cui non possono rispondere né i soldati in assetto di guerra, né i "cani feroci" evocati due giorni fa da Donald Trump.

La poliziotta - Rina Morcen è una deputata del Parlamento del Minnesota e, soprattutto, la leader del gruppo (il caucus) afro-asiatico. È venuta con il senatore locale Jeff Hayden per promettere "la riforma del sistema giudiziario e di polizia". È il tema centrale su cui i vertici del partito democratico si stanno impegnando da anni. Senza risultati.

L'epoca della speranza era cominciata nel 2012 quando, per la prima volta, diventa capo del Dipartimento di Polizia una donna, Janeé Harteau. Si presenta dichiarando la sua omosessualità e assicurando che avrebbe cambiato da cima a fondo il comportamento degli agenti. Harteau contribuì ad arginare le prassi più violente. Ma nel 2016 la sua gestione viene tragicamente sconfessata dall'uccisione dell'afroamericano Philando Castile, inerme come George Floyd, durante un controllo stradale nei dintorni di Minneapolis. Il poliziotto coinvolto, Jeronimo Yanez, sarà poi assolto dal tribunale.

Il sindaco - Per tutta risposta i democratici sostituiscono Harteau con Medaria Arrondo, primo capo della Polizia afroamericano. Si mette di nuovo mano a codici e protocolli. Si stabilisce che la "tecnica" del ginocchio sul collo può essere usata solo in casi di estremo pericolo. Però resta nei codici e questo spiega la decisione del procuratore Mike Freeman di mandare a giudizio Derek Chauvin con l'accusa di omicidio colposo.

Come dire: ha usato impropriamente "una modalità di contenimento" non illegale. Sempre nel 2017 il sindaco Jacob Frey, anche lui democratico, vince le elezioni con una piattaforma di "riforme nel Dipartimento di Polizia".

E siamo a George, a questa domenica di parziale sollievo tra edifici ancora fumanti. Ma questo retroterra spiega la profondità della frustrazione afroamericana di Minneapolis. Ancora ieri gli attivisti che si passavano il microfono o l'altoparlante dicevano cose che sono allarmante richiamo per i vertici nazionali del partito, per il candidato Joe Biden. Uno di loro, Joseph Webb IV ci dice: "Non basta essere contro Trump. Non abbiamo bisogno di star o giocatori di basket. Vogliamo mettere mano alle regole, vogliamo la giustizia che nasce da buone leggi".

Tra anarchici e suprematisti - Ma le "giornate di Minneapolis" consegnano al Paese un altro problema, che si materializza ritornando sulla East Lake Street, l'epicentro della rivolta. Anche ieri la via è stata meta di un surreale pellegrinaggio, gente che curiosava, che faceva selfie o foto posate. Senza esagerare: uno scenario da post bombardamento. Il Terzo Distretto di Polizia, quello cui faceva capo Derek Chauvin, è stato il primo edificio dato alle fiamme. Ma quelli vicini sono stati spolpati dal fuoco. Le rovine di un ristorante etiope-asiatico-vegetariano sono ancora fumanti.

Un "Pawn shop" - banco dei pegni - è completamente sventrato. Una scia lunga quasi un chilometro. Qualcuno ha pianificato tutto questo? Il governatore Walz ha suggerito l'idea che "i suprematisti bianchi" si siano infiltrati e abbiano fomentato la furia dei manifestanti. Nella notte tra sabato e domenica una voce, poi risultata infondata, aveva segnalato persino un raduno del Ku Klux Klan in un parco. Da Washington il presidente Trump annuncia che "il gruppo della sinistra radicale Antifa verrà dichiarata organizzazione terroristica", perché "sta alimentando le rivolte nelle città americane".

A Minneapolis si discute di "anarchici venuti da fuori". La parlamentare Rina Morcen dice di non "aver mai sentito parlare di formazioni di questo tipo in Minnesota". Ma l'impressione è che investigatori e politici non abbiano le idee chiare. Le organizzazioni afroamericane, a cominciare da "Black lives matter" sono giustamente preoccupate. Tre donne sindaco, democratiche e "black", come Lori Lightfoot (Chicago), Muriel Bowser (Washington) e Keisha Lance Bottoms (Atlanta) hanno avuto parole durissime contro i violenti.

C'è la necessità politica di non macchiare la più grande e potente ondata di proteste. E c'è anche la voglia civica, spontanea di pulizia. Dentro questo stato d'animo ci stanno benissimo le scene che abbiamo visto nel fine settimana. Centinaia di ragazzi e di ragazze, molti giovanissimi, sono arrivati sulla East Lake Street con ramazze e rastrelli per spazzare via i detriti e distribuire gratuitamente la merce abbandonata nel supermercato Target.