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di Miriam Rossi

unimondo.org, 18 febbraio 2024

È scandalo negli Stati Uniti per un’inchiesta dell’Associated Press recentemente pubblicata. Due anni di raccolta e analisi dei dati sull’uso dei lavori forzati per i detenuti statunitensi hanno restituito le cifre e i principali attori di questo giro di affari milionario che va a garantire profitti in primis a molte note aziende alimentari. Gli Stati Uniti annoverano il maggior numero di detenuti in rapporto alla popolazione; oggi i reclusi ammontano a circa 2 milioni di persone dei quali 800mila hanno programmi di lavoro, in maggioranza uomini neri o di colore: il calcolo del valore economico dei lavori forzati (e il loro peso sociale) è, dunque, assolutamente percepibile.

In molti sono impiegati nella manutenzione dei penitenziari, nei servizi interni di lavanderia e di mensa, alcuni lavorano per le municipalità con funzioni variegate che vanno dalla raccolta dei rifiuti alla manutenzione delle strade. Ci sono poi i lavori per i privati: segherie, industrie per la macellazione delle carni o aziende agricole, ossia impieghi rischiosi, faticosi e talvolta disgustosi, strutturalmente in carenza di manodopera.

L’Associated Press ha calcolato che i lavori forzati in agricoltura hanno generato negli ultimi 6 anni un fatturato di centinaia di milioni di dollari, con la realizzazione di prodotti poi venduti, talvolta inconsapevolmente, da colossi industriali come McDonald’s, Walmart e Costco. Cargill, Bunge, Louis Dreyfus, Archer Daniels Midland e Consolidated Grain and Barge sono invece le aziende mondiali leader della distribuzione delle materie prime, documentate dalla AP, che acquistano soia, grano e mais (e altri prodotti) per milioni di dollari dalle strutture agricole delle carceri.

Il sistema dei lavori forzati opera sulla base del XIII Emendamento alla Costituzione statunitense che nel 1865 abolì la schiavitù e il “servizio non volontario” ma al contempo ne acconsentì l’uso “come punizione per un crimine per cui la parte sarà stata riconosciuta colpevole nelle forme dovute che potranno esistere negli Stati Uniti”.

Il lavoro durante la detenzione non è quindi una scelta come avviene in Italia, ma è obbligatorio e avviene spesso in condizioni che violano i diritti di base dei lavoratori perché ai carcerati non si applicano le tutele previste per i dipendenti. I lavori sono quindi non volontari e spesso sono effettuati in condizioni non sicure. I detenuti, infatti, generalmente non sono coperti dalle tutele più elementari, tra cui il risarcimento dei lavoratori e gli standard di sicurezza federali, perché non sono considerati legalmente dipendenti. “Possono fare lo stesso identico lavoro di chi non è incarcerato, ma non hanno la formazione, l’esperienza e i dispositivi di protezione”, ha dichiarato Jennifer Turner, co-autrice del rapporto 2022 dell’American Civil Liberties Union (ACLU) sul lavoro nelle carceri.

Seppur una dozzina di Stati andranno quest’anno a votare per eliminare i lavori forzati dalle proprie Costituzioni, il sistema resta del tutto valido a livello federale. Per questa ragione l’inchiesta dell’AP getta benzina sul fuoco di quanti vogliono rendere illegale il lavoro forzato; fra di loro, anche detenuti ed ex detenuti di alcuni Stati degli USA, che recentemente hanno intentato azioni legali collettive per il lavoro forzato sottopagato o gratuito, denunciato come una forma di schiavitù. Facile configurare un’analogia di questo genere quando, soprattutto negli Stati del sud, i detenuti in maggioranza neri sono impiegati nel lavoro nei campi, ex piantagioni di schiavi e con condizioni che, a detta dei testimoni, sono per molti aspetti analoghe. Willie Ingram, tra gli intervistati del report dell’AP, ha passato 51 anni nel temibile carcere di Angola, in Alabama, soprannominata “l’Alcatraz del Sud”, per una rapina da 20 dollari armato di un coltellino che non ha fatto vittime e, come si vede in tutti i film americani, al suo terzo reato (sempre per blandi furti). Ingram ha testimoniato che quando lavorava nei campi era sorvegliato da guardie armate a cavallo e che alcuni dei detenuti-lavoratori svenivano per il caldo, anche perché lavoravano con poca o senza acqua. Le loro proteste (e il rifiuto di lavorare) erano represse con la forza: “Arrivavano, forse in quattro sul camion, con gli scudi sul viso, le mazze da golf, e ti picchiavano proprio lì nel campo. Ti picchiavano, ti ammanettavano e ti picchiavano di nuovo”.

Anche Calvin Thomas, detenuto per 17 anni ad Angola, ricorda le conseguenze per chiunque si rifiutasse di lavorare, non produceva abbastanza o non stava in fila. “Se spara in aria perché hai superato la fila, significa che verrai rinchiuso e dovrai pagare per il proiettile che ha sparato. Non si può chiamare in nessun altro modo. È solo schiavitù”.

Frank Dwayne Ellington non può invece ricordare: condannato all’ergastolo dopo aver rubato un portafoglio sotto minaccia armata, stava pulendo una macchina in una delle principali aziende di lavorazione del pollame degli USA quando il braccio gli è stato risucchiato all’interno del macchinario schiacciando il corpo all’istante.

Nel corso di una battaglia legale durata anni, la Koch Foods ha sostenuto che Ellington non aveva diritto a un risarcimento in quanto non era tecnicamente un dipendente; e peraltro proprio per questa sua “condizione” non aveva ricevuto un’adeguata formazione (né l’azienda aveva protezioni di sicurezza adeguate). Per l’appunto: dalla condizione di detenuti a quella di lavoratori forzati, infine di schiavi in termini di diritti.