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di Leonardo Caffo

Corriere della Sera, 9 settembre 2022

È il filosofo analitico italiano più celebre al mondo, insegna alla Columbia come nelle carceri americane. “Può sembrare irriguardoso, visto che chi è dentro ha problemi più seri della validità di un sillogismo” dice “eppure è lì che si gioca la partita”.

chille Varzi è il filosofo analitico italiano più celebre al mondo. Insegna da decenni alla Columbia University a New York, da altrettanti decenni è il punto di riferimento internazionale della filosofia della logica, della metafisica, della filosofia in relazione alla matematica. Una filosofia difficile, meno divulgativa, che pur tuttavia ha saputo diffondere con i libri scritti a quattro mani con Roberto Casati sulle storie filosofiche, con i manuali introduttivi, con le partecipazioni televisive e forse soprattutto con il suo progetto più rilevante: l’insegnamento della filosofia nelle carceri americane.

L’occasione del nostro incontro, con un po’ di soggezione dato che Varzi è stato un mio grande punto di riferimento da studente, è l’uscita del mio libro “La velocità di fuga. Sei parole per il contemporaneo” (Einaudi) con cui, tra le varie cose, provo a fare il punto sulla filosofia come immagine del mondo utile a decifrare lo spirito del tempo attuale. Ed è su questo che si è concentrata la nostra conversazione. Iniziamo da una domanda necessaria, la filosofia come disciplina tecnica e come immagine del mondo trasversale.

“La filosofia muove dall’apparente semplicità delle cose quotidiane per mostrarne la meravigliosa complessità. Dunque non può che essere al tempo stesso un’avventura trasversale e una disciplina impegnativa. In quanto trasversale, c’è spazio per linee e tracciati filosofici divulgativi; ma se davvero le cose sono complesse, si capisce anche che per esaminarle possono essere necessari strumenti di analisi tutt’altro che elementari, e così la filosofia diventa tecnica. Potremmo parlarne come di due lati di una stessa medaglia.

I lati di una medaglia però sono opposti, mentre immagino tu sia interessato alla loro continuità. Lo sono anch’io. E se di continuità si può parlare, la individuerei nel fatto che in filosofia un percorso autenticamente divulgativo deve appunto riflettere l’ordine delle cose: non si tratta di presentare problemi complessi in modo semplice, ma di accendere lo sguardo indagatore su ciò che sembra semplice e invece non lo è, quello stesso sguardo di cui poi la filosofia specialistica si fa esercente. Con Roberto Casati siamo sempre stati convinti che nella divulgazione si debbano evitare le false scorciatoie, così come negli approfondimenti “tecnici” non ci si deve nascondere dietro accademismi di facciata. La sfida, per così dire, è riuscire a presentare la semplicità come sede della complessità così da scorgere scenari altrimenti impensabili, altri modi di osservare la realtà, nuove possibilità operative. Ma resta una sfida…”.

Cosa significa provare a insegnare filosofia nelle carceri? Lo fai da tanti anni...

“Tutto nasce con un progetto della Columbia University avviato qualche tempo fa. Insegniamo in alcuni penitenziari statali, federali e municipali dello stato di New York. Scenari drammatici, come puoi ben immaginare. Alcuni di questi istituti carcerari, come Sing Sing, sono di massima sicurezza e i contatti con l’esterno sono estremamente limitati. Ciononostante il progetto non si limita a offrire qualche occasione di contatto in più. L’obiettivo è fornire alle persone detenute l’opportunità di seguire percorsi di studio per quanto possibile simili a quelli che offriamo regolarmente a Columbia, evitando facili paternalismi e nel rispetto delle aspettative di chi partecipa alle lezioni. Io, per esempio, insegno un corso di logica e teoria dell’argomentazione. Può sembrare irriguardoso, visto che chi è in carcere ha problemi ben più seri della validità o meno di un sillogismo. Eppure la partita si gioca proprio lì, nella capacità reciproca di andare oltre gli stereotipi e lavorare insieme su quei temi e quelle materie che chi è dentro non ha avuto l’opportunità - lasciami dire la fortuna - di poter studiare. Una volta in metropolitana vidi un ragazzo con una T-shirt che diceva: “Pensi che l’istruzione sia faticosa? Prova l’ignoranza!”. Niente di più vero, purtroppo, soprattutto in un paese dove l’educazione può essere molto costosa e, quindi, discriminante. Naturalmente il nostro progetto è poco più di una goccia nell’oceano, e nel mio piccolo credo di avere imparato più cose io, insegnando in carcere, degli studenti che hanno seguito i miei corsi con tanta bravura. Ma anche le gocce hanno la loro importanza. Negli Stati Uniti lo stigma della carcerazione è molto forte per chi riesce a tornare in libertà, con effetti di marginalizzazione che si traducono in un pesante tasso di reincarcerazione. Per chi frequenta programmi di studio (e quello di Columbia non è il solo) i numeri cambiano significativamente in meglio, così come credo cambino le vite di tanti nostri studenti”.

So che è complesso, ma in breve: perché consideri la logica lo strumento portante di una analisi filosofica del mondo?

“Tanto per cominciare, perché la logica è la scienza delle possibilità: non si occupa soltanto di come vanno le cose ma di tutti i modi in cui è concepibile che possano andare; e dal ventaglio delle possibilità dipende tutto, a partire dalle nostre speranze. In secondo luogo, la logica è alla base di qualunque teoria dell’argomentazione e in quanto tale è uno strumento fondamentale per articolare le nostre convinzioni e per comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente. Infine la logica può anche aiutarci a capire meglio le nostre responsabilità. È chiaro a tutti che siamo responsabili, non solo delle nostre azioni, ma anche delle loro conseguenze. Se tiro un sasso e rompo un vetro, benché la mia azione sia solo tirare il sasso, io sarò responsabile anche della conseguente rottura del vetro. Meno chiaro, forse, è che siamo responsabili egualmente di ciò che diciamo come di ciò che ne segue. In questo caso non si tratta di conseguenze causali ma, appunto, di conseguenze logiche: se affermo A, e se la verità di A comporta quella di B, allora B segue dalla mia affermazione e sono tenuto a risponderne in pari misura. Questo semplice fatto è alla base del pensiero consapevole e, quindi, di qualunque indagine filosofica”.

Ma c’è una speranza che la filosofia possa dirci qualcosa su come il mondo è fatto davvero?

“Sai, questa è di per sé una bella dostoria manda filosofica, anzi direi che è la domanda filosofica di fondo. Non credo quindi si possa fornire una risposta neutrale. Certamente possiamo sperare che la filosofia ci dica qualcosa su come noi pensiamo sia fatto il mondo. Ma da lì a capire come sia fatto davvero il passo è lungo, e da Kant in poi c’è chi ritiene sia un passo fuori dalla nostra portata. Personalmente mi accontento di sperare che la filosofia possa aiutarci almeno a capire perché il passo è lungo e dove si annidano i trabocchetti lungo il percorso. Se poi insisti, ti dirò che a mio avviso il trabocchetto più insidioso è anche quello più evidente: pensare che il mondo debba essere fatto in un certo modo per il semplice fatto che ci conviene pensare che sia fatto così”.

Qual è la differenza principale tra fare filosofia in America e farla in Italia?

“Fino a qualche tempo fa avrei detto che in America prevaleva un approccio alla filosofia orientato direttamente ai temi e ai problemi piuttosto che alla loro o allo studio degli autori, mentre in Italia prevaleva un’impostazione di stampo storiografico. Oggi questa differenza mi sembra decisamente attenuata. È chiaro a tutti che non si può fare filosofia senza conoscerne la storia così come è chiaro che non basta conoscere la storia della filosofia per essere dei filosofi. Ci sono però altre differenze. Per esempio, in America non c’è più quella forte contrapposizione tra la filosofia analitica e la filosofia continentale (cosiddette) che continua invece a dominare il panorama italiano, con il rischio di campanilismi accademici poco proficui. D’altra parte, è solo di recente che in America la filosofia si è avvicinata alle scienze sociali, soprattutto per effetto della crescente influenza dei “Critical Studies” in ambito accademico, mentre in Italia il dialogo tra queste discipline c’è sempre stato e ha sempre funzionato”.

Su cosa lavori ora?

“Sto scrivendo un libro sui confini. Solco dopo solco, tratto dopo tratto, queste strane linee hanno riempito i nostri atlanti e invaso le nostre vite. Come è successo? Da dove deriva tutta questa loro importanza? Perché abbiamo così tanto bisogno di demarcare e classificare ogni cosa? Ma soprattutto: è proprio vero, come vuole una certa tradizione, che alcuni confini siano più importanti di altri, più oggettivi, più “naturali”? La storia recente ci ha fatto capire quanto siano rilevanti queste domande per la nostra vita pubblica. Ma a ben vedere si tratta di domande che riguardano ogni aspetto della nostra vita, perché i confini svolgono un ruolo cruciale a qualsiasi livello di rappresentazione della realtà in cui siamo immersi. Non a caso Kant affiancava regolarmente alle sue lezioni di metafisica un corso di geografia. Mi piacerebbe provare a seguire il percorso inverso: partire dalla geografia per arrivare alla metafisica”.