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di Michele Anzaldi

huffingtonpost.it, 31 agosto 2023

Venezia 80. Nel docufilm il giornalista ripercorre il calvario giudiziario di Ambrogio Crespi, con grande sensibilità civica e tempismo giornalistico. Il 6 settembre a Venezia, in occasione dell’80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica, sarà presentato e proiettato il docufilm “Stato di Grazia”, opera d’esordio di Luca Telese. Molti penseranno all’ennesima trovata di Telese per infilarsi da protagonista in uno dei festival del cinema più prestigiosi in Europa. D’altronde il giornalista ci ha abituato a queste sue sperimentazioni di comunicazione che spaziano in più campi: giornali, radio, televisione, editoria, social e adesso il cinema.

Eppure basterebbe soffermarsi un attimo e passare dal cognome del regista al titolo del film, “Stato di Grazia”, e poi alla foto in bianco e nero che mostra la faccia di un padre disperato che a occhi chiusi stringe disperatamente a sé due bambini, per intuire che si è dinnanzi a un film drammatico. L’uomo della foto si chiama Ambrogio Crespi e quello scatto raffigura la disperazione dell’ultimo saluto di un padre ai figli mentre sta per entrare in carcere a scontare una ingiusta condanna.

Il film racconta, infatti, la vicenda o meglio il calvario giudiziario di Ambrogio Crespi. Il titolo “Stato di Grazia” descrive o meglio sancisce la situazione in cui si è trovato Crespi, ossia quella di un uomo che ha ricominciato a vivere solo perché il presidente Mattarella ha deciso di concedere la “La Grazia Parziale”. Vittima di un’incredibile vicenda giudiziaria che gli è costata 306 giorni di carcere, di cui 106 giorni nel carcere di massima sicurezza di Opera a Milano.

Il regista era stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso per fatti commessi tra il 2010 e il 2012, una strana storia di compravendita di voti tra malavitosi, che però era stata ritrattata dagli stessi malavitosi e che addirittura furono riconosciuti dal tribunale affetti di disturbi psichici, ma ciò non impedì la condanna di Crespi. Un uomo conosciuto da tanti politici, giornalisti e tutti quelli che si occupano di giustizia sia in senso negativo che positivo, per la sua passione e per i suoi docufilm di impegno civico.

Nel 2014 il suo docufilm “Enzo Tortora: una ferita ancora aperta”, viene presentato alla Camera dei Deputati, in tanti si commuovono e in tantissimi si ripromettono di adoperarsi perché non accada mai più. Vale la pena ricordare che il film, nonostante parlasse della storia di Tortora, ha avuto una tormentata diffusione, per usare un eufemismo. Basta ricordare che, nonostante le richieste ufficiali di chiarimenti degli allora presidenti delle commissioni cultura di Senato e Camera, il docufilm non fu ammesso al Festival del Cinema di Roma e non fu trasmesso dalla Rai ma per fortuna da Mediaset.

E poi fu la volta del docufilm “Spes contra Spem”, un difficile racconto su ergastolo e situazione carceraria, fatto con tale attenzione che alla presentazione del film a Venezia partecipò il ministro della giustizia di allora, Andrea Orlando. Eppure tutto questo impegno civico contro la mafia e sulla giustizia non è riuscito a evitare a Crespi e alla sua famiglia il gigantesco dolore, la paura e l’offesa del proprio onore di una carcerazione. Questa in estrema sintesi la storia che ha travolto la famiglia Crespi e che Telese prova a ripercorrere con il suo docufilm.

Spero che l’opera prima di Telese abbia un grande successo, lo dico per il paese o come dicono alcuni per la patria, ma soprattutto per la giustizia italiana. Bisogna riconoscere che Telese in questo suo nuovo impegno ha dimostrato una grande sensibilità civica, decidendo di debuttare e impegnarsi con questo film, e anche un grande tempismo giornalistico, perché politicamente parlando si spera che questa sia la legislatura delle riforme in campo giudiziario.

Sarebbe bello, anzi doveroso che la Rai in questa storia svolgesse il ruolo di Servizio pubblico, prima con servizi giornalistici sul Docufilm e poi magari consentendo a tutti gli italiani di poterlo vedere a casa e poi magari commentarlo con ospiti in studio. Capisco che possano sembrare tante cose e tutte di difficile realizzazione, ma il docufilm ci racconta giornalisticamente che nessuno è immune, e da Enzo Tortora ad ognuno di noi è ancora possibile il rischio di un caso di mala giustizia.