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di Marco Bresolin e Ilario Lombardo

La Stampa, 13 settembre 2023

Il peso degli attacchi a Bruxelles. Gli affondi su Ita e altri dossier hanno indebolito l’appoggio di Von der Leyen. Mentre gli accordi con l’autocrate Saied innervosiscono persino i Conservatori. Non bastavano le tensioni sul fronte economico. Le difficoltà sulla riforma del Patto di Stabilità. Il pressing, sempre più asfissiante, sulla ratifica del Mes. I richiami della Bce sul decreto banche. Le nomine ai vertici della Bei e della Vigilanza Bce che gli altri governi sembrano aver già apparecchiato senza troppo coinvolgere Roma. Non bastavano nemmeno gli scontri con la Commissione europea, scatenati motu proprio dalla premier e dai suoi vice, a partire dal dossier Ita-Lufthansa. Ora per il governo Meloni si apre - o meglio, si riapre - anche un altro fronte. Quello della gestione dei flussi migratori, uno dei più sensibili politicamente. E a voltare le spalle all’Italia non sono due Paesi qualsiasi, ma Francia e Germania. Due Paesi con i quali, su qualsiasi dossier europeo, è imperativo trovare un accordo per ottenere progressi nella direzione sperata.

Fonti diplomatiche europee non credono che la decisione francese di blindare ulteriormente le frontiere e quella tedesca di interrompere il meccanismo (volontario) di ridistribuzione dei migranti (ideato dai francesi per andare incontro all’Italia durante il governo Draghi) siano una diretta conseguenza del clima di tensione alimentato dalle recenti uscite di Giorgia Meloni. Considerarli una ripicca dopo le ultime intemerate è oggettivamente azzardato. “Ma certamente - riconoscono le stesse fonti - questi atteggiamenti non aiutano a risolvere una situazione che si sta facendo sempre più difficile”. E la tempistica del doppio schiaffo è quantomeno sospetta. Così il governo, per trovare un appiglio al quale aggrapparsi, ora è costretto a rivolgersi alla Commissione. Proprio a quella Ursula von der Leyen che - come raccontato ieri da La Stampa - la premier vorrebbe in qualche modo “ricattare” (“Il nostro sostegno per un’eventuale riconferma dipende da come si comporterà con noi”: questo, in sintesi, il ragionamento che la premier avrebbe fatto coi suoi fedelissimi).

Il problema è che, proprio in queste ore, la presidente della Commissione si trova sul banco degli imputati per il suo sostegno alle politiche italiane in Tunisia. La firma del memorandum con Saied è stata al centro di un duro confronto ieri al Parlamento europeo. È stata difesa soltanto dal Partito popolare europeo, mentre i socialisti e i verdi si sono scagliati contro un accordo che di fatto “regala i soldi dei contribuenti europei a un governo che minaccia i diritti umani”. Critiche sono arrivate persino dal gruppo dei Conservatori, quello di cui fa parte Fratelli d’Italia. “L’Unione europea ha fatto un patto col diavolo”, l’affondo della belga Assita Kanko, mentre gli eurodeputati della Lega hanno riconosciuto l’inefficacia del patto con il leader nordafricano.

Questa mattina Ursula von der Leyen pronuncerà l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione del suo mandato. Secondo quanto riferito da un alto funzionario Ue, la presidente dovrebbe difendere l’intesa e indicarla come un modello da seguire anche con altri Paesi. Il problema, però, è che sono i numeri a non darle ragione. E il caos scoppiato nelle ultime ore di ieri, con la doppia mossa di Parigi e Berlino, potrebbe costringerla a rivedere in extremis il testo del discorso.

Di certo le notizie arrivate da Francia e Germania hanno sorpreso Giorgia Meloni. Ma la prima reazione di Palazzo Chigi è tattica. Forse la premier darà una risposta più compiuta oggi, probabilmente durante la registrazione della prima puntata della trasmissione di Bruno Vespa su RaiUno. Nel frattempo, il primo commento che filtra da fonti di governo si limita a ricordare che Meloni aveva sin da subito sostenuto che l’accordo basato sui ricollocamenti volontari era di fatto “inefficace”, visti i numeri risicati. Una lettura che coincide soltanto parzialmente con quella del Viminale. Fonti del ministero dell’Interno fanno notare che il gesto di Berlino è “irrisorio” dal punto di vista fattuale, perché finora i tedeschi avevano accolto pochi migranti, ma al tempo stesso si riconosce che si tratta di un atto “politicamente enorme”. Una cosa è certa: la mossa del governo di Olaf Scholz, secondo il Viminale, è la pietra tombale di quell’accordo.

Per questo, secondo fonti di Palazzo Chigi è “meglio concentrarsi su soluzioni più strutturali ed europee. In questi mesi sono stati fatti dei passi avanti, ma bisogna fare di più”. Il riferimento è ai negoziati sul Patto migrazione e asilo, che a giugno ha visto i ministri dell’Interno siglare un’intesa basata su un sistema di “solidarietà obbligatoria”: chi non accetta la ridistribuzione dovrà pagare. Il problema è che il dossier è ora bloccato per via delle resistenze dei Paesi dell’Est (ma, per ragioni diverse, anche di Berlino) sul regolamento che fissa le disposizioni durante una “crisi migratoria”. Per la Polonia e l’Ungheria, due Paesi guidati da governi politicamente affini a quello di Giorgia Meloni, la ridistribuzione è inaccettabile anche nel caso in cui uno Stato sia sottoposto a forti flussi. E se la solidarietà non arriva dagli “amici”, figuriamoci dai “nemici”.