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di Roberta Barbi

vaticannews.cn, 2 aprile 2024

Dopo 6 anni in carcere Claudio Bottan esce in permesso lavoro e nella redazione in cui si occupa di giornalismo sociale s’imbatte nella storia di Simona Anedda, quarantenne affetta da sclerosi multipla che non muove più gambe e braccia, ma gira il mondo sulla sua sedia a rotelle raccontandolo in un blog. Da allora non si sono più lasciati e hanno conosciuto anche Papa Francesco. Se a chiunque di noi chiedessero cos’è la libertà, più o meno le risposte sarebbero sempre le stesse: fare quello che ci pare e quando ci pare, non dover rendere conto a nessuno, andare e venire senza orari né obblighi. Ma c’è chi darebbe una definizione diversa di libertà e in genere è chi la libertà vera, personale, l’ha persa almeno per un periodo di tempo, a causa di qualcosa che ha commesso. Claudio Bottan è stato condannato a 9 anni di carcere; ne ha scontati 6 in diversi istituti di pena prima di poter beneficiare dei permessi lavoro, oggi è un detenuto in esecuzione penale esterna che tornerà giuridicamente libero a giugno, ma soprattutto è vicedirettore della rivista “Voci di dentro” di Chieti.

“Può sembrare una contraddizione, ma in carcere ho trovato la libertà - racconta a Vatican News - da detenuto mi sono liberato delle sovrastrutture che avevo, della necessità di ostentare, ho imparato che è importante essere più che avere”. Una lezione che ha appreso non senza dolore: la prima fase della carcerazione, infatti Claudio si ribella, non accetta di essere rinchiuso, poi la luce in quell’abbraccio gratuito con il cappellano nel momento forse più buio della sua vita, quindi il desiderio di mettersi a disposizione degli altri detenuti stranieri che hanno difficoltà con l’italiano, sull’esempio di gratuità dei volontari: “Ho accettato la mia condizione oggi per me libertà è potermi donare agli altri senza che nessuno me lo imponga o me lo prescriva”.

Un’intervista che “dura” da 8 anni - Claudio scrive tanto durante la sua vita detentiva. “Leggere, studiare, scrivere in carcere sono atti rivoluzionari”, dice. Così, quando finalmente gli viene concesso l’articolo 21, il permesso di uscita per lavoro, viene mandato in una redazione giornalistica e qui s’imbatte nella storia di Simona: “Per me è stato come un pungo allo stomaco, un risveglio immediato dalla ‘carcerite’ che mi affliggeva - racconta - quando poi l’ho incontrata per l’intervista è lei che ha intervistato me…”. Claudio non nasconde a Simona di essere un detenuto, ma lei non scappa: la sua condizione di “ammalata” fa sì che conosca molto bene e da vicino il pregiudizio. “Mi ha fatto tantissime domande sul carcere, mi ha chiesto perfino chi avessi ucciso”, scherza Claudio che si è fatto travolgere da tutta quella vitalità a cui non era abituato. Tanto che ora la loro “intervista” dura da otto anni: “Abbiamo iniziato un percorso insieme, ci supportiamo e ci sopportiamo, siamo uno la stampella dell’altro”, racconta riferendo delle loro testimonianze di coppia in giro per l’Italia tra scuole, comunità e anche carceri. Vanno dove li vogliono e li chiamano, a scardinare parola dopo parola quel doppio pregiudizio che li accompagna, nei confronti del carcere e della malattia: “Fa bene innanzitutto a noi - prosegue Claudio - il nostro è un messaggio di speranza, siamo la prova vivente che non è mai finita e che un futuro nuovo è sempre possibile”.

Un faro che illumina la notte - A Claudio e Simona è capitato di offrire la loro testimonianza anche in carcere. La prima volta è stato nella casa circondariale di Chieti: “Sono entrato sicuro che da lì, almeno sarei uscito - scherza Claudio ricordando quell’esperienza - c’erano un centinaio di detenuti ad ascoltarci, all’inizio scettici su quello che avremmo detto, sicuramente pensavano ‘ma questi cosa vengono a insegnarci?’; poi, alla fine, uno di loro si è avvicinato a Simona e le ha regalato il modellino di un faro che aveva costruito per la sua famiglia. ‘Lo volevo regalare ai miei familiari durante il colloquio, ma la vostra storia oggi mi ha illuminato, perciò lo regalo a voi, tanto io qui dentro ho tempo di farne un altro’, ci ha detto, e lo conserviamo ancora con tanto affetto”.

Un selfie con Papa Francesco - Nel 2016 Claudio partecipa al Giubileo dei Detenuti; assieme ad altri ristretti ha la possibilità di stare accanto a Papa Francesco sull’altare nella Basilica di San Pietro. Qualche anno dopo arriva la telefonata del segretario del Papa: “Il Santo Padre vuole incontrarvi, siete liberi sabato?”. “Simona credeva fosse uno scherzo - racconta ancora Claudio - Papa Francesco ci ha accolto con semplicità a Santa Marta, come un padrone di casa qualunque. Simona le ha fatto vedere il suo blog, i suoi viaggi, le sue imprese e lui l’ha ascoltata con molta attenzione”. Alla fine l’idea: un selfie per ricordare quel momento, solo che Simona, a causa della sua malattia, non riesce a muovere più né gambe né braccia: “Ha detto al Papa: Santità, deve scattarlo lei, ha detto proprio così - ricorda Claudio divertito - il Papa ha preso il telefonino e ne è venuta fuori una foto incredibile, che conserviamo come uno dei regali più grandi ricevuti nella vita”.