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di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 3 agosto 2023

Da entrambi i fronti la richiesta di desecretare gli atti. Tre condanne definitive (e interamente scontate; oggi gli ergastolani dichiarati colpevoli sono liberi) e due ancora in attesa del giudizio d’appello, hanno certificato la matrice neofascista della strage di Bologna. Eppure su quell’aggettivo si continua a discutere, e ci si continua a dividere.

Tanto più nel primo anniversario celebrato con il partito erede del Movimento sociale italiano alla guida del governo, visto che proprio le sezioni del Msi avevano inizialmente frequentato, negli anni Settanta, i condannati. Entusiasti di sfoderare i saluti romani ai raduni con Giorgio Almirante sul palco.

Sensibilità e dubbi - Ad alimentare le polemiche ha contribuito il fatto che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nata nel 1977, ha evitato di ricordare il marchio nero di quella bomba. A differenza del presidente del Senato Ignazio La Russa, classe 1947 e dunque militante missino di quella stagione e pienamente consapevole del clima dei Settanta in cui sono cresciuti anche i responsabili accertati dalle sentenze; il suo silenzio avrebbe fatto ancor più rumore.

Ma al di là delle differenti sensibilità, e dei pronunciamenti della magistratura, resta il fatto che intorno a quei verdetti non s’è mai diradato l’alone del dubbio. Non solo a destra, giacché ai tempi del comitato “E se fossero innocenti?”, negli anni Novanta, c’erano molti nomi e personalità della sinistra ad esprimere perplessità sulla colpevolezza dei condannati. Perché anche senza contare che non ammettevano quel crimine a differenza di tutti gli altri (e avevano ottimi motivi per farlo, in ogni caso), non tornavano i conti sui ragazzini poco più che ventenni (Valerio Fioravanti e Francesca Mambro; Luigi Ciavardini era addirittura minorenne nell’agosto ‘80) divenuti improvvisamente stragisti, e per di più senza mandanti.

Il processo a loro carico infatti, partito con una filiera di intermediari legati al neofascismo della generazione precedente e alle trame piduiste, di grado in grado aveva perso quasi tutti i pezzi, lasciando solo a quei tre la colpa di 85 morti e oltre duecento feriti; altri due “camerati” che avrebbero dovuto fornire l’esplosivo e assistenza sul posto (Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco, presente alla stazione quel 2 agosto) erano stati prima condannati e poi assolti. E il depistaggio organizzato da Licio Gelli con Francesco Pazienza e due ufficiali del servizio segreto militare, pareva piuttosto un impistaggio, poiché dietro la falsa “Operazione terrore sui treni” che indicava una pista internazionale si poteva risalire anche a Fioravanti e ai suoi amici.

Il contesto - Perfino sul supertestimone dell’accusa contro i Nuclei armati rivoluzionari, il falsario romano Massimo Sparti, si sono addensati sospetti mai del tutto fugati di una ricostruzione studiata a tavolino e premiata con una scarcerazione per una malattia terminale che invece l’ha lasciato in vita per molti anni. Dopodiché ai tre “ragazzini” s’è aggiunto un altro ex-Nar più anziano, Gilberto Cavallini, e infine l’ambiguo Paolo Bellini, più vecchio ancora e legato ad Avanguardia nazionale, cioè al neofascismo stragista della generazione precedente. Condannato in un processo dove sono indicati pure i mandanti; Licio Gelli e il banchiere piduista Umberto Ortolani, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e l’ex senatore missino Mario Tedeschi. Tutti morti.

Così è stata aggiunta qualche tessera al mosaico incompleto, al termine di un giudizio dove sono stati ascoltati storici, giornalisti e studiosi vari della materia, per ricostruire un contesto che vede le diverse sigle del terrorismo nero di due differenti stagioni, riunite in un unico disegno stragista che lega la strategia del 1969, avviata con gli attentati prima della bomba di piazza Fontana, a quella di undici anni dopo. Ma non si è riusciti a dimostrare, ad esempio, che Bellini e Fioravanti si conoscessero; e non è stata trovata prova certa del finanziamento di Gelli ai Nar.

Gli atti desecretati - Pure sulla condanna non definitiva che chiude il cerchio, quindi, c’è chi avanza dubbi. Chiedendo - in questo caso a destra - di accertare la verità anche attraverso i documenti degli archivi segreti non ancora pubblici. Sebbene non sia ben chiaro quali siano, poiché quelli sulla cosiddetta “pista medio-orientale” sono stati svelati e non hanno confermato l’ipotesi alternativa a quella neofascista. Anzi, secondo alcune letture l’hanno esclusa, dal momento che dalle carte emerge come la crisi tra Italia e Fronte popolare per la liberazione della Palestina, fosse stata risolta fin da luglio, dunque prima della strage.

Anche chi non ha dubbi sulla matrice neofascista e sulla colpevolezza dei condannati (e non è detto che le due cose debbano coincidere) auspica ulteriori desecretazioni e nuovi passi verso la verità. Ma per completare quella già disegnata dai verdetti giudiziari, non per sostituirla con un’altra. Non è una differenza da poco, che spiega le divisioni al di là delle richieste all’unisono.