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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 8 agosto 2023

La lezione del Manifesto: si può criticare una sentenza anche senza avere la soluzione alternativa. Il 19 luglio 1990 Il Manifesto, quotidiano comunista diretto da Valentino Parlato, titolò “Lo scandalo di una sentenza giusta”. Nella stessa giornata L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci e diretto da Massimo D’Alema, uscì con la prima pagina totalmente bianca, in segno di protesta.

Così la sinistra italiana, quella garantista e quella amica dei pubblici ministeri, commentava da visioni opposte la sentenza con cui la corte d’assise d’appello di Bologna aveva mandato assolti Francesca Mambro e Giusva Fioravanti dall’accusa per la strage del 2 agosto 1980. Ancora una volta il gruppo di intellettuali, Rossanda, Pintor, Magri, Natoli, Caprara, Castellina, quelli radiati dal Pci che avevano osato scrivere “Praga è sola” contro i carri armati sovietici, risultava dissonante e isolato rispetto alla sinistra ufficiale.

Quella della federazione bolognese che brigava con i pm perché anche le carte dell’inchiesta giudiziaria dessero alla bomba quella patente di “strage fascista”, come recitava la lapide prontamente apposta alla stazione, luogo dell’atroce delitto. Pure qualche crepa si aprì, soprattutto dopo che quel pugno di giudici, togati ma anche popolari, non dimentichiamolo, aveva osato il non osabile, nella rossa Bologna, dove i cittadini avevano scavato a mani nude sotto le macerie che nascondevano 85 morti, ma forse 86, e oltre 200 feriti. Perché le emozioni erano fortissime per tutti, in quei giorni, ed era difficile mettersi quel cubetto di ghiaccio nel cervello che consentisse di studiare le carte freddamente fino a decidere di giudicare colpevoli e innocenti “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Nella redazione del Manifesto si fece questo sforzo, anche se, e proprio perché, molti redattori di allora erano bolognesi, e si erano precipitati con tanti altri nella loro città ad aiutare, in ogni modo. Ragionare e, per quel che era possibile, verificare anche con avvocati e magistrati amici che aiutassero a sbrogliare le carte sul piano tecnico-giuridico. Questo si fece. Esisteva al tempo una componente di Magistratura democratica, considerata “estremista” perché composta di toghe esterne o addirittura estranee al Pci, fortemente garantista. Non era facile esserlo su due fascistelli terroristi come Mambro e Fioravanti. Ma il Manifesto lo era già stato, provocando qualche malumore, nei confronti di altri due ragazzini di destra che erano accusati di aver tirato una bottiglia incendiaria contro una sede della Fgci. Fu scelta la linea della difesa delle garanzie per loro, e questa prevalse sull’antifascismo. Sempre, a quei tempi.

Magistrati di sinistra, avvocati e altri intellettuali furono accanto a noi del Manifesto, consapevoli del fatto che coltivare il dubbio fosse più importante del rimarcare l’appartenenza alla sinistra. Si partì dalle riflessioni più elementari. Due ragazzini di vent’anni che si dichiaravano estranei a un fatto criminale mentre ne ammettevano altri pure gravissimi. I Nar, il loro gruppo di appartenenza, terrorismo di destra, aveva comportamenti e obiettivi speculari a quelli di Br e Prima Linea e in genere il terrorismo di sinistra. Colpirne uno per educarne cento. Non, colpirne cento, a casaccio, gettando la bomba nel mucchio. I loro obiettivi erano politici o magistrati o giornalisti, non passanti. E poi, elemento fondamentale, i pubblici ministeri di Bologna non hanno mai trovato la pistola fumante, la prova della loro colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Infatti furono in seguito costretti a cercare “mandanti”, arrabattandosi tra barbe finte e grembiulini, possibilmente ormai defunti, per far quadrare il cerchio delle responsabilità. E ancora non è finita, a Bologna, Penelope sta ancora tessendo la propria tela.

Quando, negli anni novanta, era nato il gruppo “E se fossero innocenti?”, era roba di sinistra, non di destra. Ed è quel mondo che oggi dovrebbe insorgere. Ma è complicato, perché c’è un governo di centrodestra e la premier si chiama Giorgia Meloni, una giovane donna che certamente non è mai stata terrorista, ma conosce il mondo romano dei suoi coetanei, alcuni dei quali portano addosso, come quelli speculari di sinistra, il ricordo del cruento “antifascismo militante”. La stessa premier, se potesse dirlo, manifesterebbe i dubbi sulle condanne di Mambro e Fioravanti. Ma è la sinistra che dovrebbe prendere coraggio. E soprattutto distaccarsi dai quei fratelli maggiori che quarant’anni fa a Bologna vivevano in simbiosi con i pm che indagavano sulla strage e che, certamente in buona fede, avevano in testa solo il fatto che una cosa così orrenda potevano averla fatta solo i fascisti. Oggi Luciano Violante chiede a Marcello De Angelis e agli altri appartenenti alla destra storica di “fare i nomi” dei veri colpevoli, prima di scagionare Mambro e Fioravanti. Ci risiamo, sempre con la toga addosso, anche sulle spalle di uno dei più intelligenti, come l’ex presidente della Camera ed ex magistrato. Non è così che si deve procedere, se vogliamo uscire dallo scontro da curva sud. In dubio pro reo, diceva il diritto romano. Da cui avremmo molto da imparare, prima di tutto per il sistema accusatorio del suo processo. È stata proprio la sinistra a insegnarci che si può criticare anche senza avere la soluzione alternativa. Ancora ieri in un’intervista uno dei pm dell’epoca, Libero Mancuso, si limita a dire che le prove sono talmente tante da non riuscire ad elencarle. Ma quali? Una specie di teste farlocco e mentalmente fragile e un’altra che ha visto vestiti tirolesi in piena estate? I giudici possono sbagliare, facciamocene una ragione. Credo che Massimo D’Alema oggi potrebbe essere d’accordo almeno su questo. Secondo la sua opinione del 1990 sbagliarono quelli dell’appello. Non potrebbero invece essere stati superficiali quelli che hanno condannato?