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di Roberto Scarpinato

Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2022

Se l’ergastolo “riformato” tratta allo stesso modo i boss che collaborano e gli stragisti irriducibili, chi può avere ancora interesse a far luce sui punti oscuri di quella stagione? Il rischio è favorire l’omertà.

Chi erano i personaggi che chiesero a Riina di organizzare in fretta e furia la strage di via D’Amelio prima che Borsellino potesse mettere a verbale dichiarazioni che avrebbero rivelato l’esistenza del complesso piano di destabilizzazione politica sotteso alle stragi, compromettendo alcuni mandanti eccellenti?

Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?

Chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha dichiarato Spatuzza, presenziò alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 utilizzata per la strage del 19 luglio 1992?

Chi erano gli uomini degli apparati statali presenti in via D’Amelio prima dell’arrivo delle forze di polizia, che fecero fare sparire l’agenda rossa su cui Borsellino aveva annotato informazioni e rivelazioni che non dovevano venire a conoscenza della magistratura?

Si potrebbe continuare con decine di altre domande a cui in 30 anni gli irriducibili all’ergastolo han deciso di non rispondere e che realisticamente, appaiono destinate a restare senza risposta. La gravità delle ricadute negative per l’intera società civile dell’imminente approvazione della riforma dell’ergastolo ostativo impongono un supplemento di riflessione su un grande “rimosso”, riemerso alla luce grazie alla cartina di tornasole della vicenda Spatuzza. Posto che neppure la collaborazione con la giustizia basta a dimostrare il sicuro ravvedimento del condannato all’ergastolo, dovendosi valutare altri complessi fattori, come si ritiene conciliabile col ravvedimento il rifiuto di collaborare degli irriducibili? Quali sono le motivazioni soggettive del rifiuto di collaborare apprezzabili al punto da ritenerle probanti di un ravvedimento? La Consulta ha rimesso la palla al legislatore limitandosi, nelle 23 pagine della corposa motivazione dell’ordinanza n. 97/2021, solo a fugaci accenni esemplificativi di casi in cui la scelta di non collaborare può essere determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali.

E ha indicato a titolo esemplificativo il caso in cui il condannato non può collaborare per non mettere a rischio la sicurezza dei propri cari. Ma è un esempio non pertinente alla rieducazione: ove sia oggettivamente accertata l’impossibilità dello Stato di assicurare la sicurezza dei familiari del condannato, perché sono tanti o rifiutano di sradicarsi dal territorio d’origine, si configura una causa oggettiva di inesigibilità della collaborazione.

L’articolo 4 bis comma 1 bis dell’Ordinamento penitenziario vigente già prevede che nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione, il condannato all’ergastolo per reati ostativi può essere ammesso alle misure alternative alla detenzione anche in assenza di collaborazione, purché sia accertata la cessazione della sua pericolosità. La Corte avrebbe potuto quindi limitarsi a un mero intervento di ortopedia costituzionale, includendo anche il caso sopracitato tra quelli già previsti di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione, senza dissestare l’impianto portante dell’intera normativa.

Ancora la Corte, per argomentare che la mancata collaborazione può essere motivata da ragioni diverse dalla persistenza di un legame con l’associazione mafiosa, accenna alla motivazione soggettiva di non esporsi al rischio di auto-incriminarsi, anche per fatti non ancora giudicati. Ma anche tale esempio non è pertinente alla rieducazione: il diritto al silenzio per evitare auto-incriminazioni è parimenti riconosciuto sia al condannato rimasto legato alla organizzazione mafiosa, sia a quello che pur non collaborando ha deciso di rescindere i legami per valutazioni utilitaristiche, sia a chi ha deciso di collaborare non avendo da riferire ulteriori fatti auto-incriminanti oltre a quelli già giudicati. Per analoghe ragioni non è pertinente alla rieducazione il rifiuto di accusare congiunti o persone legate da vincoli affettivi.

Resta dunque insoluto il quesito iniziale: quali sono le motivazioni soggettive della non collaborazione compatibili e coerenti con il sicuro ravvedimento? È un quesito ineludibile, visto che la Corte di Cassazione ha specificato che alla formulazione di un giudizio positivo di ravvedimento si deve pervenire “in termini di certezza, ovvero di elevata qualificata probabilità confinante con la certezza” (sentenze n. 18022/ 2007 e 9001/2009).

Ancora una volta il caso Spatuzza docet sul rigore di tale valutazione. La Corte Costituzionale non si è fatta carico di fornire indicazioni al riguardo ritenendo che esulasse dai suoi compiti e ha espressamente devoluto al legislatore il compito di integrare la norma sulla liberazione condizionale. Al riguardo ha suggerito di prevedere, per esempio, che il condannato debba motivare le specifiche ragioni del rifiuto di collaborare, in modo tale che il Tribunale di Sorveglianza possa trarne importanti elementi per valutare la sussistenza o meno del sicuro ravvedimento.

Nonostante tale esplicito invito della Corte, il legislatore ha glissato passando a sua volta la palla ai Tribunali di Sorveglianza. Il testo approvato in Commissione Giustizia si limita infatti ad accennare che i magistrati di sorveglianza potranno tener conto delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione: l’avverbio “eventualmente” autorizza e legittima l’irriducibile a mantenere il silenzio anche sulle motivazioni della mancata collaborazione come se fossero superflue; e lascia carta bianca ai magistrati di sorveglianza nel decidere quali motivazioni soggettive del rifiuto di collaborare siano meritevoli di positivo apprezzamento per provare la rieducazione, incrementando così il rischio di soggettivismi interpretativi e di contrasti giurisprudenziali esiziali, viste l’estrema delicatezza e rilevanza della questione.

Esempio: il rifiuto di collaborare dell’irriducibile che ritiene che ciò che conta è pentirsi dinanzi a Dio e non agli uomini, è indice di avvenuto e sicuro ravvedimento, visto l’elevatissimo numero di mafiosi assidui lettori della Bibbia tra un omicidio e l’altro (tra i quali tanti capi carismatici come Greco, Aglieri, Santapaola, Provenzano)? E il rifiuto di collaborare di chi ritiene la collaborazione un’infamità è conciliabile con il ravvedimento? Si consideri poi la sovraesposizione a rischio dei magistrati di sorveglianza, ai quali nel disimpegno del legislatore su temi cruciali viene attribuito una sorta di surrettizio potere di grazia.

Certo è che i cittadini italiani a tutt’oggi non hanno avuto la fortuna di avere spiegato né dalla Consulta, né dal Parlamento, né dai tanti commentatori intervenuti nel dibattito, in quali casi sarà ritenuto che l’irriducibile è stato rieducato nonostante il pervicace rifiuto di collaborare. A cosa si deve tale fragoroso e prolungato silenzio?

Forse al fatto che, dopo che la Corte Costituzionale ha aperto il vaso di Pandora della riforma, i nodi sono venuti al pettine e ci si rende conto della difficoltà di conciliare rieducazione e rifiuto di collaborare? Forse all’imbarazzo di dovere ammettere che - al di là delle migliori intenzioni di tanti - s’è aperta una falla che potrebbe condurre alla normalizzazione della cultura dell’omertà?

Quella cultura che bolla come infame chi tradisce il codice di solidarietà al clan sociale di appartenenza accusando i suoi complici, e non ritiene infame invece chi col suo silenzio non prova alcuna ripulsa morale a consentire ai sodali di continuare a uccidere, a estorcere, a seminare violenza. Una cultura che travalica le associazioni mafiose e la classe criminale ed è purtroppo ampiamente e trasversalmente disseminata anche nei piani alti della piramide sociale, da sempre ostili al fenomeno della collaborazione. Piani alti che non hanno battuto ciglio quando proprio in questi giorni un’autorevole commentatrice di un giornale nazionale ha testualmente definito il pentimento “umiliazione e tradimento… un prezzo molto alto se non sei un mercenario dentro di te”.