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di Gaetano De Monte

Il Domani, 17 ottobre 2024

Fabrizio Pomes ha finito di scontare una condanna per concorso esterno alla mafia. Nel carcere di Bologna ha studiato, si è laureato. Ora è di nuovo con la famiglia. Ai detenuti dice: “Si può fare”. All’alba del 7 ottobre del 2014, esattamente dieci anni fa, un’operazione antimafia portò in carcere 53 persone, la maggior parte delle quali esponenti apicali dei clan De Vitis-D’Oronzo di Taranto, protagonisti della guerra di malavita che nei due decenni precedenti, tra il 1989 e il 1991, aveva lasciato sulle strade della città. Un cartello criminale che aveva messo le mani sugli appalti più importanti del territorio e sulla politica.

A pagare per tutti con il carcere e con i sequestri patrimoniali fu però anche un colletto bianco: Fabrizio Pomes, oggi 58enne, imprenditore e politico di lungo corso, già consigliere ed assessore comunale con il Psi di Bettino Craxi, ed all’epoca dei fatti dirigente regionale della “Puglia per Vendola”. Pomes fu accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, perché avrebbe gestito insieme ad alcuni esponenti del clan d’Oronzo la più grande struttura sportiva della città, il Centro sportivo Magna Grecia, ora abbandonata da dieci anni, e che versa in condizioni disastrose, in attesa che i soldi stanziati per i Giochi del Mediterraneo la riportino all’antico splendore.

Per quella vicenda l’uomo ha già scontato sette anni di carcere, condannato in via definitiva ad otto anni, ed ora si trova in regime di esecuzione penale esterna con l’affidamento in prova ai servizi sociali. A dieci anni esatti da quel primo arresto, Pomes ha deciso di raccontare la propria esperienza detentiva a Domani. “Non è stato di certo facile passare da quello che era definito il centro nevralgico della politica e degli affari, a Taranto, dalla gestione di una struttura che riusciva a tenere insieme lo sport con gli incontri politici di tutti i partiti dei diversi schieramenti politici, e da me gestito nelle vesti di “manovratore”, alla cella di un carcere”, è la premessa ironica del nostro incontro avvenuto a Bologna, dove ora vive con la famiglia dopo essere uscito dal carcere.

E poi sul passato, aggiunge: “Rispetto la sentenza che mi è stata inflitta in primo grado ad undici anni, poi ridotta in appello a otto, anche se non l’ho condivisa; sono entrato in carcere con la consapevolezza che avrei scontato per intero la mia pena e questa consapevolezza mi ha aiutato perché sapevo che mi sarei dovuto armare di tanta resilienza per reagire alla sofferenza”.

“È stato nel momento della vita in cui mi sono sentito più fragile e ferito che ho avuto la volontà di ridisegnare il mio progetto di vita, senza aspettare che tornasse a splendere il sole, ho imparato giorno dopo giorno a danzare in mezzo alla tempesta”, dice, rievocando i giorni della terza laurea conseguita in sociologia, in carcere, all’università di Bologna, dopo quelle che aveva già ottenuto in gioventù in giurisprudenza ed economia.

Quasi si commuove ancora, mentre ricorda la discussione finale della tesi scortato dagli agenti della polizia penitenziaria, ma con la presenza dei figli, della moglie e di altri parenti. “Li considero le vittime innocenti dei miei errori e della mia superficialità, ma è in quel momento che ho capito quanto fossero importanti per me e quanto potevano essere felici per quella soddisfazione che avevo loro regalato, dopo anni di delusioni, amarezze e umiliazioni”. Continua Pomes: “Un invito a tutti i detenuti: attraverso lo studio dal carcere si può riemergere, è un’opportunità, deve essere valutata come possibilità di cambiamento, anche se resta il fatto che per molti detenuti studiare in quelle condizioni è difficile, costretti ad arrangiarsi per trovare spazi fisici e mentali utili alla concentrazione”. Appena uscito dal carcere, qualche settimana fa, inoltre, ha conseguito anche la quarta laurea, in consulenza del lavoro e delle relazioni aziendali, discutendo la tesi sui diritti dei detenuti alla Naspi.

“Qui entra l’uomo, il reato sta fuori”. La scritta scolpita nel vecchio carcere di Pianosa costruito nel XIX secolo, nell’epoca della prevenzione speciale e degli studi sull’uomo criminale da parte della scuola di Lombroso, è una massima che Pomes rievoca durante il nostro incontro per ricordare le esperienze di altri detenuti che ha conosciuto all’interno del polo universitario della Dozza di Bologna: Daniele, Paolo, Igli, Andrea, Donard questi i nomi di battesimo di alcuni condannati all’ergastolo.

E se l’ex politico di Taranto ritiene sia stato fondamentale l’incontro con loro, è perché “ho capito che la diversità in carcere si manifesta in molteplici forme, etnica, culturale, sociale ed esistenziale, ma ogni detenuto porta con sé una storia diversa, è un modo di vivere che il mondo di fuori oggi così tanto caratterizzato da razzismo e individualismo, forse, dovrebbe paradossalmente far proprio”, conclude. Pomes ora partecipa a “Ne vale la pena”, un laboratorio di giornalismo dentro al carcere bolognese, dove ogni settimana, dal marzo del 2012, una redazione di detenuti e volontari s’incontra per parlare della condizione carceraria. Scrive anche una rubrica “Percorsi di libertà” su EduradioTv con l’obiettivo di creare un ponte tra il carcere e la città.