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di Francesco La Licata

La Stampa, 22 dicembre 2023

Diceva Giovanni Falcone che per battere la mafia, intesa come organizzazione criminale, sarebbe bastato schierare un buon esercito. Più difficile, se non impossibile sarebbe stato sconfiggere la mafiosità, cioè quella sottocultura medievale (contro cui lo scrittore Gesualdo Bufalino invocava l’intervento di un esercito, ma di maestri elementari) che in gran parte del nostro Meridione fa da supporto al potere arrogante delle cosche con un colpevole assoggettamento “ideologico” che finisce per tramutarsi, con i silenzi, l’omertà e l’indifferenza, in vero e proprio favoreggiamento.

E non si può fare a meno di ripensare al monito del grande giudice leggendo cosa accade, nell’anno di grazia 2023, nel territorio calabrese di Palmi. Dunque: una giovane donna viene abusata da un branco di delinquenti. Una violenza continua interrotta solo quando la ragazza denuncia alla polizia e alla magistratura gli autori di quegli abusi. Sono giovani anch’essi, alcuni minorenni e in venti finiscono in carcere. Ma nel gruppo ci sono anche tre rampolli di capimafia e l’erede di un amministratore locale. Basta questo perché l’esistenza della giovane si trasformi in un vero e proprio inferno, alimentato soprattutto dall’atteggiamento dei familiari, che invece di schierarsi con la vittima la sottopongono a un martellante tentativo di convincerla a ritirare la denuncia. In questa vergognosa tortura si distinguono il fratello, la sorella e i loro rispettivi compagni. Violenza fisica e psicologica che si sarebbe spinta fino all’isolamento della ragazza (con la disattivazione della scheda telefonica) per impedirle di cercare aiuto e addirittura all’istigazione al suicidio.

Un brandello di medioevo proprio mentre nel resto della società civile si piange per le donne vittime della violenza maschile e si dibatte sui possibili rimedi. Non è difficile immaginare quali argomenti possano essere stati utilizzati dai torturatori: la vergogna per aver ceduto al sesso perché per quelle teste ogni vittima è complice, il timore di divenire un “problema” per tutta la famiglia nel caso i genitori dei violentatori, mafiosi o potenti, decidessero di vendicarsi della “spiata” e del rifiuto di rimangiarsi le accuse. Un classico, quindi, l’invito al suicidio perché - decide un certo malinteso senso comune - chi si uccide ammette praticamente la propria colpa e questo può essere d’aiuto nel processo. Che inferno deve aver vissuto quella giovane vittima, abbandonata pure da chi avrebbe dovuto difenderla.

Eppure di queste storie è pieno il nostro Sud, terreno di coltura di una logica capovolta che vuole le vittime maltrattate e poi solidali con i carnefici. Magari quella ragazza avrebbe potuto accettare un “risarcimento” (di cui avrebbe goduto l’intero nucleo familiare): il potere mafioso sa essere generoso quando gli serve. Una simile soluzione avrebbe avuto pure il merito di affermare ulteriormente dei concetti cardine della mafiosità: non si parla con gli “sbirri”, non si collabora con la giustizia e l’unica autorità riconosciuta deve essere “la mamma”, cioè la mafia. Chi potrà mai scordare Lea Garofalo? Anche lei calabrese, uccisa dal marito perché “aveva tradito il principio dell’omertà”, denunciando l’ambiente che la circondava. Anche lei fu sottoposta a un “accerchiamento” dai familiari, che volevano farla uscire dal programma di protezione e perciò indurla a ritrattare. L’ostinazione di Lea la porterà alla morte, ma non prima di aver piantato il seme di una nuova libertà cresciuto nella figlia che non ha esitato a confermare in tribunale le accuse della madre.

È popolata di croci la storia delle donne del Sud. Lia Pipitone fu uccisa a Palermo, nel 1983, su mandato del padre-boss che non poteva sopportare l’onta di avere una figlia innamorata di un uomo che non era il “regolare” marito. La fece uccidere nel corso di una rapina simulata e poi fece uccidere anche l’amante, “suicidato” dai sicari di Cosa nostra. Una delle poche storie finite bene è quella di Franca Viola, rapita in Sicilia, ad Alcamo, da uno spasimante, boss respinto. L’uomo offrì il matrimonio riparatore (allora, anni Sessanta, possibile per legge) ma la ragazza ebbe la forza di opporsi ancora e mandarlo in galera. Fu fortunata, Franca, potendo contare su una famiglia sana che la sostenne fino all’ultimo