sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Giordano Stabile

La Stampa, 16 aprile 2023

L’obiettivo è scalzare il rivale Abdel Fattah al-Burhan. Il bilancio degli scontri salito a 56 morti e 595 feriti. I Berretti rossi sono tornati. E hanno riportato il terrore nel cuore di Khartoum, come quattro anni fa, quando loro, i miliziani del generale Mohamed Hamdan Dagalo, trucidarono a colpi di mitragliatrice centinaia di studenti accampati per protesta davanti al quartier generale delle Forze armate. Ma ieri l’obiettivo del massacratore del Darfour, già braccio destro dell’ex dittatore ricercato dall’Aja Omar al-Bashir, era un altro. Ovvero il nuovo uomo forte del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan. L’ultimo bilancio degli scontri (domenica mattina alle 8, ora italiana) è di 56 morti e 595 feriti.

La primavera sudanese del 2019 aveva portato a una lentissima transizione verso la democrazia, un governo misto civile-militare che doveva poi lasciare il posto alla società civile, protagonista della rivoluzione culminata a fine giugno con la “marcia del milione”, l’ultima spallata al regime. Al-Burhan, fautore anche della normalizzazione dei rapporti con Israele, era pronto. L’11 aprile doveva essere firmato l’accordo per il nuovo esecutivo tutto civile. Ma qualcuno ha bloccato tutto. E quel qualcuno è Dagalo.

Nei giorni scorsi la gente era tornata nelle strade. Con lo stesso grido di quattro anni fa, “houkoume madaniyeh”, “governo civile”, libertà, diritti. Al-Burhan ha cercato di convincere Dagalo a un passo indietro. Poi, la sera di venerdì, ha deciso di sciogliere il nodo con la forza. Ha decretato l’assorbimento dei Beretti rossi, la milizia personale di Dagalo, conosciuta anche come Rapid Support Forces o Rsf, nelle forze armate regolari. Un modo per disarmare il rivale. Che ha reagito con la massima brutalità, il suo marchio di fabbrica. Ieri, prima dell’alba, ha lanciato l’assalto ai centri del potere nella capitale, alla confluenza del Nilo Azzurro con il Nilo Bianco. Cannonate contro il comando dell’esercito, e poi l’assalto all’aeroporto internazionale e al palazzo presidenziale, dove risiede lo stesso Al-Burhan, subito conquistati. Al-Burhan, presidente del Consiglio esecutivo civile-militare però non c’era. Si era spostato, dopo aver annusato il pericolo, in una caserma con militari a lui fedeli. E ha lanciato il contrattacco. Si sono alzati in volo i vecchi cacciabombardieri di fabbricazione sovietica e hanno cominciato a bombardare le postazioni dei Berretti rossi.

Un golpe mezzo fallito, e una guerra civile fra fazioni militari a pieno regime, che ha fatto piombare il Sudan nella sua peggiore crisi da quattro anni. Gli attivisti della rivoluzione però non disperano. Sono convinti che Al-Burhan, con l’appoggio della popolazione, alla fine prevarrà. “Ci sono scontri in tutti tre i settori della città - conferma alla Stampa uno di loro, Mohamed Youssif -. I ponti sono bloccati e le fazioni si sparano con l’artiglieria pesante”. I miliziani di Dagalo puntano a isolare la capitale e a impedire alla gente di uscire, con il terrore, i morti sarebbero già decine, mentre dai palazzi colpiti da bombe e proiettili di artiglieria ieri sera si levavano dense colonne di fumo. Muhameda Tulumovic, direttrice di Emergency nel Paese, racconta che ha dovuto chiudere l’ospedale pediatrico, e il personale del centro di cardiochirurgia. Salam, è bloccato perché “è impossibile spostarsi” nella capitale.

Uno scenario di guerra che preoccupa i Paesi vicini, Europa e Stati Uniti. Il segretario di Stato Antony Blinken ha rivolto un appello affinché “cessino subito le violenze”, senza però accusare nessuno. Anche l’equilibrio nei rapporti internazionali, come quello interno, è precario e variabile. Dagalo, come il suo mentore Al-Bashir, mai consegnato all’Aja, aveva un ventaglio di alleati che andava dagli Emirati alla Russia. Ancora a febbraio è andato in visita a Mosca. E parte dei suoi miliziani sarebbe stata addestrata dalla Wagner. Dopo la rivoluzione del 2019 il Sudan si è invece riavvicinato agli Stati Uniti fino a impegnarsi a firmare un accordo di pace con Israele “entro la fine del 2023”. Russi e alleati nel Golfo non hanno però mai abbandonato del tutto la presa. E i loro rapporti privilegiati con Dagalo, anche se ieri il Cremlino ha esortato alla “tregua”. Dalla battaglia di Khartoum dipendono anche i rapporti di forza nel Sahel e in Africa orientale.