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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 6 settembre 2023

Un marchio e un’onta che le accompagnerà per sempre. Un passo avanti e uno indietro. Così si muove Aysha nel Centro di transito per rifugiati a Renk, città sud-sudanese al confine con il Sudan. E lì che dal 15 aprile arrivano via terra decine di migliaia di profughi e sfollati di ritorno. Lì che è giunta anche lei dopo un mese di viaggio. Con sé non ha più niente. Non ha un vestito per cambiarsi, non ha più soldi. Non ha più nessuno. Del passato resta l’immagine della separazione e della disumanità.

Il giorno che ha trovato il coraggio di lasciare Khartoum, gli uomini delle Rsf (Forze di Supporto Rapido) hanno bloccato il veicolo che trasportava i suoi nipoti, tre ragazzi e tre ragazze. Aysha ha visto i ragazzi legati e trattenuti con la forza dentro il veicolo e le giovani trascinate via tra le grida in un altro mezzo, perso velocemente dalla vista. Tre giovani rapite mentre cercavano la via di fuga dalla guerra, condotte verso un destino di abuso. Per raccontare quello che ha visto e udito cerca una tenda in cui nessuno la ascolti. La vergogna, propria o altrui, per essere raccontata necessita del pudore del silenzio. Così si siede a terra, si scopre il volto e finalmente piange.

Viveva nella parte settentrionale di Khartoum e ha faticato a resistere nascosta con le donne della sua famiglia e i nipoti più giovani per le prime settimane dopo l’inizio dei combattimenti. Finirà, speravano. Si ripeteva di avere un solo scopo, sopravvivere e proteggere le figlie e le figlie delle figlie da quello che le guerre sudanesi avevano insegnato senza che nessuno imparasse la lezione, cioè che il corpo delle donne sarebbe di nuovo diventato la trincea delle violenze di chi combatte. E volevano proteggere i più giovani dal reclutamento forzato.

Un giorno di maggio la sua vicina Halima è entrata in casa, le ha detto che uomini senza divisa militare avevano cominciato a fare irruzione nelle case cercando armi e portando via gli uomini. Erano entrati anche in casa sua, avevano chiuso la nipote diciassettenne in una stanza con la madre e avevano violentato la ragazza davanti ai suoi occhi. “Se provate a gridare, vi violentiamo tutte, hanno detto. Sono felici quando violentano. Cantano quando violentano. Ci chiamano schiave, dicono che possono fare di noi quello che vogliono”.

Halima non aveva più lacrime. Le ha detto solo: andate via. Così Aysha ha messo nelle tasche della sua abaya nera i soldi che le erano rimasti, ha chiamato a raccolta i nipoti, e si è decisa a unirsi alle migliaia in fuga, cercando di richiesta d’aiuto in richiesta d’aiuto, il contatto di chi poteva portarli via da Khartoum. Ma da Khartoum è uscita sola. Dei suoi tre nipoti maschi non ha saputo più nulla. Delle ragazze, dicono i sussurri di chi è sopravvissuto, si sa solo che siano state portate in una base militare, che ci siano altre decine di giovani. Che le milizie Rsf le “usino a loro piacimento”.

La storia di Aysha è una delle poche che emerge dai non detti delle tende improvvisate di Renk, tra i miasmi dell’acqua tra cui giocano i bambini, i resti di cibo marcito, la terra diventata fango per le piogge. È la voce di chi non può trattenere il dolore per avere perso i suoi cari, per non aver potuto fare niente per sottrarli a un destino segnato. La storia delle umiliazioni che si consumano sulla pelle, nell’anima di donne e ragazze, stupri usati come arma di guerra, strumento di prevaricazione, onta e marchio che le accompagnerà per sempre, arma utilizzata anche per umiliare la donna, la sua famiglia e la sua comunità. Sono le donne e i bambini a soffrire l’impatto più devastante della crisi in Sudan che ha provocato lo sfollamento forzato di oltre tre milioni di persone, di cui 700 mila fuggite nei Paesi limitrofi, come il Sud Sudan. Quando sono scoppiati i combattimenti, ad aprile, le strutture mediche hanno cominciato a essere danneggiate e distrutte in maniera sistematica, per questo la maggior parte delle organizzazioni internazionali ha evacuato il personale e secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) del Sudan, a luglio quasi l’80% degli ospedali sudanesi erano fuori servizio.

Erano le donne e le ragazze, anche prima del conflitto, in Sudan, a correre in rischio maggiore di violenza sessuale. Oltre 4 milioni quelle esposte alla violenza di genere. Donne che faticano a parlare e non riescono a dimenticare.

Le donne del Darfur - “Devi rassegnarti o uccideremo tutti i tuoi fratelli”. Sono state queste le ultime parole che Bushra ricorda di aver ascoltato prima di chiudere gli occhi e sperare che il suo corpo non venisse violato. Studentessa di Economia, la sua, a El Geneina, era la vita di una ordinaria venticinquenne, con i desideri e le aspettative della vita che verrà. Terminare gli studi, trovare un lavoro, sposarsi, avere dei figli. Poi in Darfur è tornata la guerra. Bushra ha raccontato ai ricercatori di Human Rights Watch che hanno raccolto la sua testimonianza, di aver sentito entrare in casa otto uomini armati, due con l’uniforme delle Forza di Supporto Rapido (Rsf) e gli altri in abiti civili. In quel momento, nell’abitazione del quartiere Tadamun dove viveva, si nascondevano venti persone, gli otto uomini hanno sfondato la porta, gridato di consegnare tutti i telefoni, imposto agli uomini di uscire e urlato di consegnare le armi. La madre di Bushra ha fatto cenno a lei e alle altre giovani di chiudersi in una stanza. E così hanno fatto, pregando a bassa voce di essere risparmiate. Poi un uomo in abiti civili è entrato nella stanza, si è avvicinato a lei, le ha toccato il seno, le ha puntato il fucile alla tempia, ha fatto un cenno con la mano indicando il materasso e ha detto: non uccidiamo le donne, ma se ti sacrifichi non uccideremo nemmeno gli uomini. Così si è sdraiata, nelle orecchie aveva le urla delle cugine e delle vicine nella stanza, il suono di un proiettile esploso nella stanza accanto, il grido acuto di sua zia che era stata ferita, e le voci di cinque uomini che si alternavano a violentarla.

Sopravvissuta agli stupri non ha parlato per giorni, prima di chiedere a sua madre di essere portata via. Gli uomini in casa non c’erano più, prelevati dalle Forze di Supporto Rapido (Rsf), e non c’erano più neppure i soldi che servivano a prendere la strada per salvarsi. Ma sua madre ha raccolto una busta con due asciugamani, qualche veste e un po’ d’acqua e sono scappate in Ciad, dove sono arrivate una settimana dopo.

A El Geneina, capitale del Darfur Occidentale, prima della guerra vivevano circa 550 mila persone, dalla fine di aprile alla metà di giugno 400 mila, sono scappate come Bushra, solo una delle tante, troppe, sopravvissute a stupri di gruppo. Due settimane fa Human Rights Watch ha pubblicato un lungo rapporto per denunciare le violenze perpetrate dalle Rsf a El Geneina. I casi di stupro identificati sono 78, ma lo stigma sociale, unito alle infrastrutture distrutte, alle reti di comunicazione compromesse, rendono impossibile fare chiarezza sui numeri. Solo una delle sopravvissute ha dichiarato di aver ricevuto cure di emergenza, perché a El Geneina le milizie hanno saccheggiato e dato alle fiamme non solo abitazioni civili e strutture militari ma anche cliniche, ospedali e uffici di organizzazioni non governative. Secondo l’Unità sudanese per la lotta alla violenza contro le donne, le denunce e le testimonianze rappresentano probabilmente il 2% dei casi totali, il che significa che ci sono stati circa 4.400 casi di violenza sessuale nei primi tre mesi del conflitto.

“Sono entrati in casa in tre, cercavano armi ma non hanno trovato nulla, poi mi hanno chiesto a quale tribù appartenessi. Quando ho risposto “Massalit” mi hanno violentata in tre. Sono rimasta sdraiata lì pensando che non avrei camminato mai più. Sono tornati dopo alcune ore e mi hanno violentato ancora, uno di loro diceva: “Voglio che resti incinta. Voglio che partorite tutte i nostri bambini”. Poi mi hanno trascinato in strada dicendo: “Se non vai via ti ammazziamo”. Mi sono alzata, mi sono unita a un gruppo di profughi diretti in Ciad e sono andata via. Da allora non ho più senso dell’orientamento”. Anche le poche parole che Alia ha consegnato una volta in salvo in Ciad raccontano lo stupro come arma. Di più, lo stupro come arma contro un gruppo etnico.

Secondo le testimonianze dei sopravvissuti le milizie hanno attaccato città e villaggi prendendo di mira soprattutto le zone abitate da una delle principali comunità non arabe, i Massalit, facendo tornare in Darfur lo spettro di guerre mai risolte, di una giustizia mai raggiunta né pretesa fino in fondo dalla comunità internazionale.

Le rivendicazioni basate sull’etnia e l’inazione del governo sudanese nel risolvere le contese legate alla proprietà della terra hanno radici antiche. Già nel 2003, durante la campagna di pulizia etnica dell’allora presidente Al Bashir, le forze governative e le milizie Janjaweed, precursori delle Forze di supporto rapido, avevano attaccato le comunità non arabe, nel 2008 il pubblico ministero della Corte Penale Internazionale definì lo stupro “parte integrante” del modello di distruzione che il governo del Sudan stava infliggendo in Darfur, scenario identico al 2019 quando le Rsf si erano scontrate con i gruppi armati Massalit.

Lo scorso anno Pramila Patten, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, aveva segnalato 100 casi di violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza sudanesi, invitando le forze armate a collaborare con le agenzie internazionali per identificare i responsabili e ottenere giustizia. Ma poco, quasi nulla, è stato fatto. Allora come oggi lo stupro era stato un’arma di guerra e nonostante le denunce, le indagini non si sono trasformate in processi esemplari, alimentando il clima di impunità che alimentava e alimenta l’idea che la violenza maschile sulle donne rappresenti l’orgoglio di infliggere umiliazione al nemico.