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di Federico Rampini

Corriere della Sera, 5 maggio 2023

Dopo l’evacuazione (con successo) di quasi tutti gli italiani e gli altri occidentali dal Sudan, abbiamo già declassato la gravità di quello che sta succedendo nel Paese? Ma quali sono le nostre responsabilità? Perché non interveniamo a fermare la violenza?

Avendo evacuato con successo quasi tutti gli italiani e gli altri occidentali dal Sudan, abbiamo declassato la gravità di ciò che accade in quel paese africano? È un’altra “strage dimenticata”? In realtà l’emergenza Sudan è in prima pagina sul New York Times, analisi e commenti si moltiplicano, e hanno un elemento in comune: è scattato il processo a noi stessi. Se c’è una strage in corso in un paese africano, dove sono gli Stati Uniti, dov’è l’Occidente? Quali sono le nostre responsabilità? Perché non interveniamo a fermare la violenza?

Comincio dalle fonti di casa nostra e riporto qui un appello lanciato da Amnesty International / Italia, che contiene una sintesi della situazione attuale: “Gli scontri tra le forze armate fedeli al capo di stato di fatto del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e il gruppo paramilitare denominato Forze di supporto rapido, guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, hanno finora provocato oltre mezzo migliaio di morti e quasi cinquemila feriti. L’irresponsabile condotta militare delle due parti in conflitto, basata su pesanti attacchi contro i centri abitati, sta flagellando la popolazione civile della capitale Khartoum. Si registrano imponenti flussi di sfollati provenienti dal Sudan e diretti oltreconfine. Nel frattempo, sono ripresi gli scontri anche nella regione del Darfur, dov’erano iniziati nel 2003: coloro che si scontrano oggi per il controllo del potere sono gli stessi che per 20 anni hanno commesso crimini di diritto internazionale contro la popolazione darfuriana, provocando almeno 300.000 morti e la fuga di tre milioni di persone. La persistente impunità e l’incapacità di garantire un corretto accertamento di responsabilità nei confronti di coloro che sono sospettati di aver commesso crimini di guerra, oggi in una posizione di leadership in Darfur, stanno contribuendo alle violenze ora in corso in Sudan.

Le testimonianze che ci arrivano dal posto sono terrificanti. Continuiamo ad appellarci alla comunità internazionale affinché non volti nuovamente le spalle al Sudan e non ripeta quanto accaduto nel 2019, quando una sollevazione popolare pose fine al regime di terrore di Omar al-Bashir, ma la popolazione sudanese venne poi di fatto lasciata sola. Le persone sono nuovamente in fuga, vittime di un conflitto tra forze di potere che lottano tra loro per il controllo del paese. È evidente che i civili ne subiscano le conseguenze senza un’adeguata protezione e assistenza.

Tale atteggiamento è inaccettabile pretendiamo che le parti in conflitto garantiscano la protezione dei civili e permettano l’accesso agli aiuti umanitari per tutti coloro che ne hanno bisogno. Stiamo assistendo ad un vero e proprio omicidio dell’umanità. Quanto sta accadendo in Sudan rappresenta anche il fallimento dell’impegno della comunità internazionale a collaborare alla giustizia internazionale. Infatti, la Corte Penale internazionale ha emesso sette mandati di cattura, quasi 15 anni, fa nei confronti dell’ex presidente al-Bashir e di altri esponenti dell’esercito e dei paramilitari, ma solo uno di essi è stato eseguito. Lo stesso al-Bashir, il principale sospettato, è ancora in fuga e addirittura libero nel suo paese”.

L’appello accorato che lancia la sezione italiana di Amnesty International è giusto in tutto, salvo che nella conclusione. Il presunto “fallimento della comunità internazionale a collaborare con la giustizia internazionale” sarebbe dimostrato dal fatto che l’ex dittatore sanguinario al-Bashir non è stato catturato e consegnato alla Corte penale internazionale. Questo però avviene perché, come nota Amnesty, al-Bashir è “libero all’interno del suo paese”. Dovremmo mandare una forza di spedizione militare per catturarlo, all’interno di un paese dove gode di complicità e protezioni? Magari una forza di occupazione che ristabilisca pace ordine e sicurezza a vantaggio della popolazione stremata? Formata da quali paesi, con quale missione precisa, per quale durata? Salvo poi sentirci accusare di ingerenze neo-coloniali?

Tornando al caso di al-Bashir, di questo passo dovremmo considerare un “fallimento della comunità internazionale” il fatto di non avere ancora catturato e consegnato alla Corte dell’Aia Vladimir Putin? Peraltro, quand’anche al-Bashir venisse effettivamente arrestato e processato, altri sono i generali che in questo momento tengono il Sudan nel terrore.

Nell’impotenza a fermare guerre e guerre civili, affiora sempre i noi occidentali una sorta di “nostalgia imperiale”, inconscia e inconfessabile, il vago desiderio di un mondo dove tocca a noi riparare le ingiustizie, fermare le atrocità, proteggere i deboli e gli indifesi. Quel mondo in realtà non è mai esistito e men che mai esiste oggi quando i generali golpisti che tengono in ostaggio la popolazione del Sudan sanno rivolgersi di volta in volta alla Divisione Wagner russa, alla Cina, all’Egitto o all’Arabia saudita, se l’Occidente diventa un loro nemico. Quando queste tragedie fanno scattare il riflesso automatico dell’auto-colpevolizzazione, sotto sotto c’è una forma di euro-centrismo o americano-centrismo, un’illusione di onnipotenza, una sopravvalutazione di ciò che possiamo fare noi.

Amnesty International è in buona compagnia visto che il più importante giornale americano fa la stessa cosa: imbastisce un processo all’America, che naturalmente deve essere colpevole se qualcosa va storto da qualche parte nel vasto mondo. Il New York Times sbatte il Sudan in prima pagina con questo titolo: “Come un piano Usa per la democrazia in Sudan si è concluso con una fuga frettolosa”. L’inchiesta che segue mescola dati di fatto innegabili con analisi e giudizi molto discutibili. Su tutto l’articolo pesa una evidente esagerazione del ruolo della diplomazia americana e di ciò che essa può fare nel Sudan in particolare, in Africa in generale.

“Ancora poche settimane prima del golpe - esordisce il reportage del New York Times - i diplomatici americani pensavano che il Sudan fosse vicino a una svolta, un accordo che avrebbe accelerato la sua transizione dalla dittatura militare verso una democrazia piena, realizzando così la promessa della rivoluzione del 2019”. Il New York Times arriva a definire il Sudan come “un importante test per l’obiettivo centrale della politica estera di Joe Biden, quello di rafforzare le democrazie nel mondo intero… anche per consentire alle democrazie di resistere contro l’influenza di Cina, Russia, e altri potenze autoritarie”. Quest’ultima è un’affermazione azzardata, innalzare il Sudan al rango di un test per la politica estera di Biden è un’esagerazione, visto che in un’ordine gerarchico d’importanza l’Ucraina, Taiwan, il Golfo Persico, sono terreni prioritari per misurare lo stato della competizione fra superpotenze, ma anche la gara d’influenza rispettiva tra Washington Mosca Pechino su giganti come l’India o il Brasile o il Sudafrica attira più risorse ed energie diplomatiche.

Comunque il reportage prosegue con la descrizione di una débacle: “Il 23 aprile, gli stessi diplomatici americani che erano stati coinvolti nei negoziati in Sudan si ritrovarono di colpo a chiudere l’ambasciata e ad evacuare Kartum nottetempo e in gran segreto, su elicotteri, mentre il paese sprofondava in una potenziale guerra civile”. La requisitoria sul fallimento della diplomazia americana si basa su questo: la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato avrebbero sbagliato a trattare con degli “uomini forti” - i due generali golpisti e rivali tra loro - che promettono democrazia e disattendono regolarmente gli impegni presi. L’America non avrebbe dato abbastanza spazio e risorse alla “società civile”, quella che scese in piazza nel 2019 per abbattere il regime di al-Bashir. È un film già visto: le Primavere Arabe furono l’occasione di illusioni analoghi, e poi scatenarono processi all’America e all’Occidente per ciò che avevamo fatto, oppure avevamo omesso di fare. Il mito di una società civile buona, virtuosa, liberaldemocratica, che regolarmente viene tradita e abbandonata da noi, è tenace. Resiste anche all’evidenza: per esempio quella stessa società civile in Egitto - paese confinante col Sudan e con alcuni problemi in comune - appena chiamata alle urne consegnò il potere ai Fratelli Musulmani, e la rivoluzione democratica si trasformò in rivoluzione islamista, calpestando molti diritti delle minoranze. Il Sudan è il luogo dove va in scena oggi la stessa illusione, lo stesso psicodramma, la stessa liturgia di auto-flagellazione per gli errori che avremmo commesso noi. Sempre rifiutando di accettare che “noi” contiamo meno di quanto crediamo - o forse vorremmo - e soprattutto ignorando che paesi come il Sudan hanno dei leader capaci di manovrare e manipolare le rivalità tra potenze, e lo stanno facendo in questi giorni con grande spregiudicatezza.