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di Davide Ferrario

Corriere della Sera, 16 agosto 2023

Un’inefficienza totale che ricade sull’ultimo anello della catena: i detenuti. Con doversi ostaggi della situazione: polizia penitenziaria e dirigenti. Serve un cambiamento vero, che non arriva: né da destra né da sinistra.

Un giorno il direttore del carcere di Torino, dove ho fatto il volontario per una decina d’anni, si fermò davanti a una porta in un corridoio, la aprì e mi disse: “Guarda dentro”. Lo spazio era quello di un salotto piuttosto ampio, pieno fino al soffitto di rotoli di carta igienica non confezionati. “È roba fallata che la ditta non può mettere in commercio, allora me la sono fatta dare”.

Ecco, fuori dai convegni, dai paroloni della politica e dai picchi drammatici di questi giorni, il carcere in Italia è questo: un rifiuto tra i rifiuti, dove ci si arrangia giorno per giorno. Finché l’inefficienza del tutto finisce per scaricarsi sull’anello più debole della catena: i detenuti, come dimostrano i due suicidi di venerdì proprio a Torino e, lo stesso giorno, quello di via Gleno.

Ma assieme ai prigionieri, ci sono anche gli ostaggi di questa situazione: personale e dirigenti, alcuni dei quali sono straordinari esempi di “servitori dello Stato”, come si diceva una volta. Anche se immagino che talvolta non si sentano servitori, ma veri e propri servi. Gli agenti, per esempio, sono tra i lavoratori regolari più sfruttati e sottopagati in circolazione.

Il carcere mette in cortocircuito la politica, sia di sinistra che di destra. La sinistra perché, pur essendo consapevole dei problemi (come dimostra l’intervento sulla Stampa di Giorgio Gori di due settimane fa), non ha il coraggio né la forza di andare contro un’opinione pubblica forcaiola e giustizialista. La destra perché a parole difende l’istituzione carcere in quanto tale, ma nei fatti se ne frega ampiamente, sia di chi ci langue sia di chi ci lavora, come stanno accorgendosi anche i sindacati del personale, che pure sono un naturale bacino elettorale di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e soci.

E così, a cicli periodici, si ripete la solita messa in scena: che talvolta è commedia, più spesso dramma. Intanto, in galera continua a starci gente che, come i tre suicidi di questi giorni, dovrebbe stare in un altro posto, perché il loro problema non è la violenza, ma la tossicodipendenza o il disagio sociale. Il che non significa “liberi tutti”, ma affrontare i problemi per quelli che sono. Altrimenti il carcere continuerà a essere come un ospedale dove si entra, si resta senza cure, e si viene dimessi facendo finta di essere guariti. A spese dei contribuenti.