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di Giuliana Ubbiali

Corriere della Sera, 25 agosto 2023

“Avrebbe potuto uccidere anche me. Devastante il suo suicidio”. Maria Cristina Ravanelli racconta il dramma della tossicodipendenza del figlio, che ha ucciso il padre poi si è tolto la vita in carcere. “Per noi genitori è come scalare l’Himalaya senza ossigeno. Siamo soli e impotenti”. Maria Cristina Ravanelli si tocca il lato destro e il lato sinistro del collo. “Federico aveva una C qui e una U qui. Sono stati i suoi primi tatuaggi. C sono io, Cristina, e U è suo padre Umberto”.

Si alza dal tavolo rotondo con la tovaglia fatta all’uncinetto che era di sua madre, esce dal salotto con i cuscini rosa sul divano in tinta con due vasi e torna con la foto del figlio, quella del necrologio dove i tatuaggi si vedono bene: “Guardi, qui aveva ancora gli occhi belli”. Lì a Seriate, in un’altra foto che tiene sul comò della camera, Federico aveva due anni e il vestito di Arlecchino. Ormai, quel figlio non esisteva più. “Era diventato uno zombie, non lo riconoscevo più, in preda a sostanze micidiali. Lo scriva, c’è in giro di tutto, c’è pieno, e lo trovi ovunque”.

La trasformazione e la paura - Suo figlio è Federico Gaibotti, il ragazzo di 30 anni che il 4 agosto ha ucciso il padre Umberto, a casa di lui a Cavernago, e il 10 si è tolto la vita in carcere. Il Federico prigioniero della droga sarebbe stato capace di tutto, anche di uccidere la madre, lei ne è convinta: “Mi ha salvato la paura verso mio figlio - ripete più volte -, me ne sono andata da casa per tre mesi, da giugno ad agosto, rifugiandomi in una struttura protetta perché ho avuto paura di lui. Quel giorno è toccato a Umberto, ma potevo essere io al suo posto”.

Il dramma della droga - Quando descrive il figlio dagli occhi belli (“intelligente, lavoratore, preciso con il suo negozio di Tatoo, dolce ed educato, con carattere”) accenna un sorriso sul viso serio ma non carica le parole di miele, e quando ripercorre che cos’era diventato non lesina la cruda realtà. C’è un solo modo per raccontare questa storia ed è farlo con le parole senza filtri di questa mamma, di 63 anni, minuta nel suo vestitino bianco a piccoli fiori azzurri, curata nei dettagli e con i capelli raccolti. Infermiera negli ambulatori prima a Grumello e poi a Calcinate, è in pensione da marzo. Questo è il suo dramma, ma potrebbe esserlo di mamma Elisa, Rosaria, Federica e di papà Mario, Angelo, Luigi.

“Noi genitori soli e impotenti” - “Lo scriva che noi famiglie siamo sole, impotenti. È come pensare di scalare l’Himalaya senza bombola d’ossigeno. Fai tutto quello che puoi: vai al Sert, contatti le comunità ma devi anche fare i conti con le trafile e le lunghe attese perché sono piene, lo porti al pronto soccorso se sta male, lo porti in psichiatria, chiami i carabinieri, lo fai arrestare, lo denunci, vai a prenderlo se ti chiamano anche nel cuore della notte, non lo vuoi più in casa e poi lo riprendi perché ci speri, è tuo figlio. Ma alla fine noi famiglie siamo sole con i loro mostri e siamo stremate”.

Il lavoro, l’incidente in moto, il negozio di Tatoo - Maria Cristina Ravanelli non sa come sia iniziata con la droga, se l’è chiesto. “Federico aveva le capacità e gli strumenti per fare quello che voleva. Io e Umberto lo prendevamo in giro perché anche da piccolo metteva le mance sul suo libretto. Dopo alcuni anni di studio in informatica, con un’eredità dei nonni e con i soldi dell’assicurazione dopo un incidente in moto, si era aperto il negozio di Tatoo a Martinengo, aveva fatto tutto da solo. Poi non so se con il lockdown e la chiusura dell’attività sia successo altro”. A proposito dell’incidente. “Aveva 22 anni e una Kawasaki. Quel giorno, quando ho sentito l’ambulanza, ho detto subito: “Questo è Federico”. È rimasto in ospedale 18 giorni, con il duodeno sfondato, voleva uscire il prima possibile per tornare a lavorare. Sono certa che allora non si drogasse, i test che gli hanno fatto in ospedale erano negativi”.

“Nel 2021 i primi mostri di mio figlio” - Nel 2021, invece, mentre è in vacanza a Fuerte Ventura la mamma capisce subito che il figlio non è quello di prima: “Continuava a telefonarmi, aveva delle fissazioni, aveva quasi aggredito un’anziana in strada convinto che lei volesse entrare in casa sua”. Lei torna, lui ammette di usare cocaina, inizia il percorso di recupero. E l’incubo. Federico arriverà a fare due buchi nel soffitto al quinto e ultimo piano della casa della madre convinto che sopra ci fossero delle telecamere: “Guardi qui - indica una parete -. Questi sono i segni”. Federico va tre volte in tre diverse comunità, ma ci rimane due settimane, poi sei giorni, poi una settimana. “Lui non voleva stare alle regole, entrava e pensava di essersi ripulito subito”.

“Me ne sono andata da casa per tre mesi” - L’infermiera tornava dal lavoro e, quando il figlio era da lei, la scena era sempre la stessa. Lui a letto, si alzava di notte, quando chiedeva soldi e voleva uscire. “Una volta era fatto e strafatto, mi ha tirato addosso una bottiglia di acqua. Ecco, lì ho avuto paura e me ne sono andata in una struttura protetta. Ad agosto ero tornata e me lo sono trovato sotto casa. Certo che come genitore ci speri, io e il mio ex marito eravamo rimasti uniti nell’ultimo anno, sempre in contatto per Federico. Ma questi ragazzi ti prosciugano, in tutti i sensi. In due anni ho speso 25 mila euro. Se ci fosse stata la pillola magica per guarirlo, mi sarei anche indebitata pur di salvarlo”. Il papà preso per il collo, due costole rotte, la mamma buttata giù dalla sedia al pronto soccorso, la richiesta di soldi, gli anelli (“uno prezioso di famiglia”) e un girocollo spariti. Ne hanno viste, questi genitori.

I messaggi tra Federico e il papà - Maria Cristina Ravanelli scorre il telefono e legge i messaggi. Il 24 luglio, “Umberto” scriveva a Federico, in comunità: “Stai lì, altrimenti non so come possiamo aiutarti”. Lui, con un messaggio vocale, gli diceva: “Ho fatto il bravo per due mesi, non voglio stare chiuso. Tanto vado in Francia da un mio amico”. Il padre scrive alla ex moglie che non ce la fa più, ma la sera alle 21.48 le fa sapere: “Ciao, ci sentiamo domani, Federico è con me”.

Il giorno dell’omicidio: “Mi chiamò la vicina” - Maria Cristina Ravanelli non se lo dimenticherà mai. Il 4 agosto è al centro antiviolenza (“persone fantastiche”) e riceve una telefonata da un numero sconosciuto, un ragazzo chiedeva di una ditta: “Ho riconosciuto la voce di Federico e lui la mia”. Per averlo cacciato da casa si era sentita parolacce e minacce: “Ti ammazzo e ti brucio la macchina, io gli dissi: “Federico, mi sa che se vai avanti così dovrò venire io al tuo funerale”“. Quel giorno, su consiglio del centro, sta andando a Seriate per sporgere la denuncia. “Mi chiama la vicina di Umberto. “Vieni, vieni, sta succedendo qualcosa”. Sono arrivata a Cavernago, Umberto era steso in giardino, Federico non mi ha vista. Ho pensato: speriamo che Umberto si salvi, così Federico andrà comunque in carcere e poi in comunità”.

“Un carabiniere mi avvisò del suicidio di Federico” - Per un paio di volte Maria Cristina Ravanelli ha serrato le labbra e rispedito indietro la commozione. Stavolta è troppo pesante. Il suicidio. “Ero alla sala del commiato, il giorno prima del funerale di Umberto. Il mio primo figlio Michele mi dice: “Mamma, vieni subito”. Fuori, in borghese con una maglietta rossa, riconosco il carabiniere che aveva preso la denuncia. Mi dice: “Signora, le devo dire una cosa brutta, suo figlio...”. Ho finito io la frase. È stato devastante, devastante”. Gli occhi si gonfiano, si alza e va a prendere un fazzoletto che terrà stretto in mano. Non le servirà ancora, è una mamma che ha finito le lacrime. “Federico, con i suoi fantasmi, era finito in un pozzo nero senza luce. Forse, se fosse stato preso in tempo prima del crack e di tutto il resto, si sarebbe salvato”.