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di Cesare Burdese

Il Dubbio, 28 febbraio 2024

Ci sono organismi dello Stato che a volte, con i loro atti, ci fanno sentire cittadini di un Paese civile. È il caso della Corte costituzionale che con la sentenza n. 10/ 2024 ha dichiarato l’illegittimità del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, affermando finalmente il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere, a distanza di oltre dieci anni dal precedente arresto della sentenza n. 301/ 2012. Il divieto è stato ritenuto una vessazione gratuita, “esageratamente afflittiva”, in assenza di obiettive ragioni di pericolosità.

La sentenza ha riattivato sull’argomento i molti attori che calcano la scena penitenziaria: esponenti del volontariato e terzo settore, figure del mondo politico e del governo, amministratori della giustizia, sindacalisti. Ognuno di loro avanza le sue ragioni, favorevoli o contrarie: per missione, per tornaconto elettorale, per ruolo istituzionale, per rivendicazioni settoriali. A condizionare il rispetto di quel diritto, contribuisce, oltre ad aspetti di natura politica, l’idea - mai superata - di un carcere meramente afflittivo.

Consapevole dell’inadeguatezza delle nostre carceri rispetto al monito costituzionale, pur convinto della ineluttabile drammaticità e sofferenza della condizione detentiva, sono portato, nell’ottica della “riduzione del danno”, a rivendicare la necessità di azioni volte a migliorare l’edificio carcerario. Ritengo che la questione, riportata recentemente alla ribalta dalla sentenza della Corte costituzionale, possa rappresentare uno stimolo ad un maggiore impegno per migliorare la progettazione delle nostre carceri.

Altrove nel mondo occidentale, in carcere i rapporti sessuali con il proprio partner in visita sono ammessi. Già negli anni quaranta del ‘ 900, nelle carceri messicane erano consentite le visite coniugali, le cui finalità dichiarate erano quelle di preservare i legami familiari, mantenere nei prigionieri un maggiore equilibrio psicologico e prevenire l’omosessualità.

Ho visitato all’estero numerose carceri dove le visite intime sono previste. Faccio mie le parole di Mauro Palma, per testimoniare quanto ho potuto riscontrare: “la questione che mi ha più favorevolmente colpito in molti Paesi dove negli Istituti penitenziari sono previste visite di tipo affettivo e familiare, senza alcune supervisione, è la semplicità con cui la questione era stata affrontata e la normalità del loro svolgersi. Dove tutto è più naturale, diventa naturale l’atteggiamento professionale anche degli operatori che, in tali Paesi, sono dei sostenitori del sistema perché questo permette la diminuzione di tensione nella quotidianità, il mantenimento dei legami affettivi e fornisce anche un ulteriore strumento per incentivare al buon ordine in Istituto”. La mia conclusione è che dovremmo agire nello stesso modo.

Resta l’ostacolo dell’atavica insipienza nella concezione dei nostri spazi detentivi, che induce a soluzioni sostanzialmente intrise di disumanità. Un fronte culturale in grado di incidere diversamente nella nostra vicenda architettonica carceraria, ancora da noi non esiste.

Qualora il Parlamento desse corso all’azione legislativa per rispettare la sentenza della Corte costituzionale, si dovrebbe affrontare in maniera inedita la progettazione degli spazi necessari. Ho il timore/ certezza che quegli spazi - stando le cose come stanno non sarebbero adeguati, viste le condizioni culturali/ ideologiche di partenza. Le implicazioni spaziali che essi comportano non sono limitate ai soli aspetti della sicurezza e della funzionalità gestionale.

Le soluzioni da realizzare riguardano molti degli aspetti esistenziali dell’utenza, psicologici e relazionali, che possono trovare soddisfazione solo in una dimensione architettonica che vada oltre la semplice edilizia. Le attività progettuali degli ultimi decenni, in tema di infrastrutture penitenziarie, negli ambienti tecnici della pubblica amministrazione e anche al suo esterno, hanno prodotto altro.

Per questo bisognerebbe sin da subito configurare una compagine progettuale, consapevole di tutte le problematiche presenti, costituita dalle diverse professionalità in campo, oltre a quella dell’architetto. Altrimenti tutto si risolverà secondo le logiche consuete al chiuso degli uffici tecnici ministeriali. Il rischio peggiore è che il compito possa essere affidato a qualcuno del personale di custodia, improvvisato per l’occasione progettista, come è già più volte accaduto per l’allestimento e l’abbellimento delle sale colloqui e delle aree verdi.

Agli occhi di chi ha profonda conoscenza delle dinamiche interne alla complessa gestione della realtà carceraria, ancorché dal punto di vista edilizio, le mie parole possono apparire ingenue ed inconcludenti. Ne prendo atto ma non posso esimermi dall’esprimere tutto il mio disappunto nei confronti di un mondo che parrebbe non volere evolversi, incapace di progettare e realizzare il carcere della Costituzione. La condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, anche per questioni legate allo stato materiale delle sue carceri, e lo spettro di una ulteriore imminente prossima condanna, mi fanno sentire cittadino di un Paese incivile, e non solo in quanto architetto. Il mio sentimento peggiorerà se la sentenza della Corte costituzionale rimarrà lettera morta.