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di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 21 luglio 2023

Ci si azzuffa su questioni che non sembrano destinate a cambiare di molto le condizioni di salute della giustizia italiana, ma stanno innescando conseguenze difficilmente controllabili nella loro evoluzione. Il conflitto politico riaccesosi sulla “riforma della giustizia” ha raggiunto toni e confini che dovrebbero consigliare un maggiore senso della misura e della realtà.

S’è detto più volte che le rinnovate diatribe di questi giorni affondano le radici in ciò che accadde in questo Paese oltre trent’anni fa, con la “rivoluzione giudiziaria” di Mani Pulite e le ricadute che ebbe sul destino della cosiddetta Prima Repubblica; compresa quella sorta di delega alla magistratura sulla selezione della classe dirigente prima favorita e poi osteggiata dai soggetti politici (vecchi e nuovi) che hanno calcato la scena della Seconda. Stavolta però ci si azzuffa su questioni che, prese una ad una, non sembrano destinate a cambiare di molto le condizioni di salute della giustizia italiana, ma al contempo stanno innescando conseguenze difficilmente controllabili nella loro evoluzione. Arrivando a lambire i rapporti tra governo, Parlamento e Quirinale.

Prendiamo l’abuso d’ufficio, norma introdotta nel 1990 e già riformata nel 1997 e nel 2020, prima della proposta di totale abolizione contenuta nel disegno di legge varato un mese fa dal Consiglio dei ministri e ora approdato al Senato. A prescindere dalle riserve nel merito avanzate da più parti (in primo luogo la Lega tra le forze politiche della maggioranza, e i magistrati espressisi sia singolarmente che come Associazione) è abbastanza chiaro che si tratta di tema d’impatto più politico che reale nell’erogazione del servizio giustizia. Quasi una questione di principio, che mira ad evitare la “gogna mediatica” e carriere rovinate per gli amministratori locali denunciati, inquisiti e infine - nella stragrande maggioranza dei casi - prosciolti in istruttoria o assolti nei processi. Il che è vero, ma già la riformulazione del 2020 (che l’ha ridotto a ipotesi molto residuale, della quale non si tiene conto quando si denunciano le migliaia di procedimenti aperti a fronte di pochissime condanne) potrebbe avere risolto buona parte del problema. Che in ogni caso poco incide sulla insopportabile durata dei processi, vero male atavico da curare con interventi “di sistema”, anziché mirati su singole esigenze.

Inoltre la riforma proposta dal ministro Nordio e avallata dal governo ha suscitato le perplessità del capo dello Stato che ha concesso il via libera all’iter parlamentare non prima di aver sottolineato alla presidente del Consiglio le criticità derivanti dal possibile conflitto tra la cancellazione del reato (insieme a un’ulteriore restrizione del traffico illecito di influenze) con le Convenzioni internazionali anticorruzione che l’Italia è tenuta a rispettare. Per dettato costituzionale.

Ebbene, proprio mentre Sergio Mattarella trasmetteva il disegno di legge al Senato, dalla Camera arrivava un altro siluro a ciò che quelle Convenzioni raccomandano, con la bocciatura della direttiva del Parlamento europeo sugli stessi argomenti. Una coincidenza che, per quanto casuale, assume il sapore di una sfida, considerando che i vincoli europei rappresentano - in generale, non solo sulla giustizia e il contrasto al malaffare - una delle principali note dolenti per questo governo.

Anche il resto delle modifiche contenute nel primo “pacchetto giustizia” sembrano più bandiere che soluzioni ai guasti del sistema, dall’irrigidimento sulla pubblicazione di intercettazioni estranee ai reati contestati (di cui non vi sono tracce da svariati anni, per ammissione dell’Autorità competente) al collegio di giudici per emettere un’ordinanza di arresto (che comunque non ci sarà prima di due anni). Infine il cortocircuito sul concorso esterno in associazione mafiosa, a cui il Guardasigilli (insieme a un pezzo di maggioranza, Forza Italia) gradirebbe mettere mano ma non Fratelli d’Italia, il partito della premier che l’ha fatto eleggere deputato e nominato ministro. Con il risultato di una pubblica sconfessione che certo non giova alla sua immagine, per provare a fermare nuove controversie e ulteriori contrasti con la magistratura.

Di qui l’impressione che prima di lanciarsi in certe battaglie sarebbe meglio calcolarne la portata e le ripercussioni. Oltre che la reale incidenza sulle priorità da affrontare. Anche per non alimentare il sospetto di voler alzare l’attenzione (con annessi polveroni) su alcune questioni per distoglierla da altre, di più vasta portata ma per le quali è più difficile trovare soluzioni.