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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 11 giugno 2023

La missione in Tunisia di Meloni con Von der Leyen e Rutte per fermare le partenze verso l’Italia. Il Paese africano ha disperato bisogno di soldi ma qui i profughi continuano a morire e subire violenze. Per la seconda volta in una settimana la premier Giorgia Meloni oggi torna a Tunisi, stavolta nella missione multilaterale sarà accompagnata dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il primo ministro olandese Mark Rutte.

Al centro della visita Ue la gestione del flusso migratorio e il prestito del Fondo Monetario Internazionale sospeso da mesi e di cui la Tunisia ha disperato bisogno per risollevare un’economia ormai in ginocchio. La visita è ben più importante della precedente perché dimostra al Presidente Kais Saied che non è solo l’Italia a preoccuparsi della crisi tunisina ma l’Europa che è reduce da un accordo sul nuovo patto per le migrazioni.

La missione però parte zoppa, e la soluzione dei problemi finanziari di Tunisi resa ancora più difficile dalle notizie funeste arrivate due giorni fa, il declassamento della Tunisia da parte dell’agenzia di rating Fitch da CCC+ a CCC- per i ritardi nelle trattative sul prestito dal Fondo Monetario Internazionale.

La Tunisia - scrive Fitch - non ha capacità di mobilitare finanziamenti sufficienti per soddisfare il suo fabbisogno finanziario per il rifiuto nell’attuazione delle azioni preliminari allo sblocco dei fondi. Perciò senza un piano di riforme la spesa per i salari, per gli interessi sul debito e i sussidi finirà per pesare per il 90% delle entrate pubbliche e se si aggiungono gli effetti della crisi climatica che investe la regione, l’economia rischia un rapido crollo. Secondo Fitch “il fabbisogno di finanziamento del governo sarà elevato a circa il 16% del Pil nel 2023 (circa 7,7 miliardi di dollari) e al 14% del Pil nel 2024 (7,4 miliardi di dollari), ben al di sopra della media del 9% del 2015-2019 del 9%”. Troppi i debiti, troppi i disavanzi di bilancio, troppi i finanziamenti interni su cui il governo ha fatto affidamento in mancanza di quelli esterni, troppe le resistenze del presidente Kais Saied che resta indisponibile ad accettare quelli che definisce i “diktat del Fmi”.

Sull’incontro di oggi pesa anche l’esito dell’accordo sui migranti raggiungo dal Consiglio degli affari interni Ue, tanto celebrato dal governo e che non solo resta un sostanziale nulla di fatto per l’Italia ma contiene dei profili di grave preoccupazione da parte dei giuristi sui rimpatri nei Paesi di transito considerati sicuri. Dall’accordo, i cui dettagli non sono ancora noti, l’Italia porta a casa poco: continua a non essere prevista l’obbligatorietà dei ricollocamenti, non viene di fatto messo in discussione il trattato di Dublino ma si apre alla facilitazione dei rimpatri attraverso l’esame abbreviato delle richieste di protezione. Si vorrebbero velocizzare cioè le procedure di valutazione delle richieste d’asilo alla frontiera e i casi considerati non ammissibili verrebbero rimandati in Paesi terzi considerati sicuri. I Paesi di arrivo saranno obbligati a mostrare un “collegamento” con il Paese in cui viene trasferito qualsiasi migrante, ma i criteri potrebbero essere definiti dallo Stato membro. Potrebbe considerarsi “collegamento” la presenza di familiari in quel Paese, o potrebbe bastare riuscire a dimostrare che un richiedente asilo ha solo soggiornato in quel Paese, il che consentirebbe il trasferimento anche nei Paesi di transito come la Tunisia.

Ma, e qui si complica l’entusiasmo per l’accordo, nessun Paese di transito ha, finora, accettato di rimpatriare persone che non fossero connazionali. Significherebbe dunque per l’Italia non poter rimpatriare i subsahariani in arrivo dalle coste tunisine. Potrebbe essere questo uno dei nodi da sciogliere nel secondo incontro con Saied, per Meloni: fare pressione sul presidente tunisino per facilitare i rimpatri in cambio del sostegno economico necessario al Paese.

Intanto in Tunisia si continua a morire, la guardia costiera ha recuperato altri 9 corpi da un naufragio del 31 maggio al largo della città di Monastir e continuano le proteste dei subsahariani di fronte alle sedi delle agenzie delle Nazioni Unite. Sono ancora 150 le persone, tra cui 15 bambini e donne incinte che vivono nelle tende senza cibo e con scarse risorse d’acqua, chiedendo da settimane il sostegno di Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e Unhcr affermano di essere bloccati senza accesso all’istruzione, ai farmaci e alla protezione umanitaria, e continuano senza successo a chiedere una urgente evacuazione dalla Tunisia. L’8 giugno Alarm Phone ha riferito dell’intensificazione della violenza al confine a Sfax, affermando di aver ricevuto segnalazioni secondo cui forze tunisine mascherate stessero picchiando violentemente i migranti dopo averli intercettati in mare.

Le partenze dalla Libia - Kais Saied non è il solo interlocutore del governo in Nordafrica. Il 7 giugno la premier ha accolto a Roma una delegazione libica che comprendeva il governo di unità nazionale libico di Abdul Hamid Dbeibeh, incontro che fa seguito alla precedente missione di gennaio a Tripoli per discutere di accordi su migrazione, commercio ed energia. Sugli accordi firmati, oggi come in passato, i dettagli sono ancora sconosciuti. Meloni “ha espresso apprezzamento per gli sforzi compiuti dalle autorità libiche nelle operazioni di salvataggio in mare e nel contenimento delle partenze irregolari” e ha esortato il governo libico a una contropartita per “intensificare gli sforzi nella lotta alla tratta di esseri umani”.

Che la Libia non sia un porto sicuro non è più un dubbio per nessuno. Lo provano fotografie, immagini, testimonianze, i numeri che continuano a essere la prova dell’inefficacia delle politiche di esternalizzazione dei confini e dell’impianto securitario degli ultimi anni. A distanza di sei anni gli effetti del Memorandum italo-libico sul sostegno alla Guardia Costiera e la gestione dei centri di detenzione hanno dimostrato di non funzionare, la tratta del Mediterraneo centrale resta la più pericolosa al mondo e il paradigma costruito dall’Italia con l’allora governo di Fayez al Sarraj - soldi in cambio del controllo delle coste, fondi e mezzi in cambio della diminuzione degli sbarchi - ha reso il nostro Paese ancora più vulnerabile al ricatto delle milizie.

I gruppi armati che controllano il traffico di uomini sanno che incentivare le partenze può portare denaro e mezzi. I leader di questi gruppi armati sanno che porre al centro degli incontri bilaterali la capacità di arginare questi flussi li renderà di nuovo interlocutori credibili, perché necessari. Sta accadendo di nuovo con il generale Khalifa Haftar, ricevuto un mese fa a Roma dalla premier Meloni. Al centro gli investimenti, il processo elettorale sempre in stallo in Libia, e naturalmente il tema migratorio. Nei primi cinque mesi del 2023 la rotta libica è seconda a quella tunisina. Sono 22.500 gli arrivi al primo di giugno, più del doppio dello scorso anno. Di questi 22 mila la metà provengono proprio dalla Cirenaica.

Haftar sa che in Europa il sostegno si ottiene sulla pelle dei migranti e non è un caso quindi ciò che sta accadendo nelle ultime settimane nell’Est della Libia...

La settimana scorsa le organizzazioni umanitarie che monitorano la situazione in Libia hanno denunciato la deportazione di migliaia di cittadini egiziani. Secondo i report nei primi giorni di giugno le deportazioni di massa sono avvenute dopo una serie di arresti nelle città di Tobruk, Emsaed e Musaid, le forze di Haftar hanno fatto irruzione negli hangar usati dai trafficanti di uomini per smistare e trasportare i migranti in attesa di partire, stipati a centinaia in capannoni e magazzini invivibili. Ancora impossibile stabilire con certezza il numero di morti e feriti. Secondo Migrants Rescue Watch, i migranti sarebbero stati caricati sui camion per essere trasferiti a Bengasi e poi forzatamente in Egitto e in base alle ricostruzioni delle forze di sicurezza del Cairo una volta arrivati al confine i migranti - tra i quattro e i seimila - avrebbero marciato per chilometri ai limiti della sopravvivenza. Tra le persone detenute e rimpatriate anche bambini e adolescenti.

Le Nazioni Unite denunciano da anni che i migranti in Libia siano “regolarmente a rischio di espulsione arbitraria o collettiva” e hanno registrato un aumento delle deportazioni, con almeno 7.500 migranti espulsi dalle frontiere terrestri tra il 2019 e il 2022. I migranti sono espulsi senza giusto processo, senza contestare la legittimità della deportazione nemmeno quando avviene verso Paesi in cui rischiano persecuzioni, torture e maltrattamenti, pratica che costituisce un respingimento ed è quindi illegale secondo il diritto internazionale.

Già nel 2021 le Nazioni Unite avevano denunciato le condizioni disumane che i cittadini egiziani erano costretti a sopportare per attraversare il confine, e le interviste condotte da Amnesty International avevano fatto emergere un quadro allarmante di spartizione del potere in Cirenaica che evidenziava i legami tra i trafficanti e i gruppi di milizie guidati da Haftar. Eppure, una volta ancora, nonostante le evidenze, le prove, le testimonianze e i documenti, le politiche europee continuano a restare cieche di fronte agli abusi, e gli interlocutori degli accordi si fanno forti dell’assenza di sanzioni.

Il governo Meloni, come nel caso tunisino, ha urgenza di arginare un flusso che non riesce a gestire, Haftar ha bisogno di misurare il peso delle sue alleanze in Europa e sa bene che la leva più efficace da usare verso Stati spaventati dai flussi migratori, sia la gestione delle partenze. Per questo, sulla pelle delle persone migranti, si è dimostrato zelante con arresti e deportazioni. Due giorni fa in conferenza stampa a Catania il ministro dell’Interno Piantedosi ha detto che “al momento i contatti con Haftar sono finalizzati soprattutto al sostegno ad alcuni progetti di sviluppo economico che il generale Haftar ha chiesto”.

L’Italia chiederà al generale Khalifa Haftar una “più proficua collaborazione nel fermare le partenze ma è prematuro - ha aggiunto - parlare di un accordo”. Non è in agenda ora, forse, ma rischia di diventarlo velocemente. È il prezzo da pagare quando si legittima un interlocutore controverso che mette sul tavolo richieste politiche in cambio del controllo delle coste.