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di Donatella Stasio

La Stampa, 17 giugno 2023

Il ministro Nordio non punta al garantismo, ma va a caccia della resa dei conti con magistratura e media. “In primo grado mi avevano assolto. Poteva finire lì se fosse rimasta in piedi quella simpatica legge che Berlusconi si era fatto per sé. Una legge del cavolo, giustamente dichiarata incostituzionale; ma aboliva l’appello del pm contro le sentenze di proscioglimento e mi avrebbe salvato. Invece mi hanno condannato e ora aspetto la Cassazione. Ho paura. Capisci che cosa vuol dire se mi strappano via da tutto quello che nel frattempo ho costruito, mi condannano per un reato di quindici anni fa, e mi fanno tornare dentro? Questa cosa mi ucciderà”.

La Cassazione non ha confermato la condanna in appello e Marco è rimasto libero. Era il 2008 quando mi raccontò la sua storia, aveva 33 anni e metà li aveva passati “dentro”, per reati di traffico d’armi e di droga, fortunatamente nel carcere di Bollate dove aveva studiato, fatto teatro, imparato un lavoro. Tornato libero, aveva avuto una bambina.

La vita era cambiata ma la giustizia italiana dai tempi biblici minacciava di riportarlo dentro per almeno altri tre anni. Era angosciato, ma nella sua nuova vita coglieva perfettamente, oltre all’immoralità, il senso dell’incostituzionalità di quell’ennesima legge ad personam che Silvio Berlusconi aveva voluto per sfuggire al corso naturale dei suoi processi. Una legge smaccatamente contro i pm, fatta solo per “menomarne” il potere d’appello. Oggi quella norma viene riproposta, in una versione circoscritta ai reati meno gravi. Un “tributo” del governo Meloni alle “battaglie di Berlusconi”.

E di tutto il pacchetto Nordio sulla giustizia è forse il punto meno criticabile ma non meno ideologico, perché riflette la voglia del governo di mandare un segnale non di garantismo ma di resa dei conti, di rivincita, nei confronti della magistratura e dei media. Un pessimo segnale: se davvero si vogliono efficaci riforme sulla giustizia, è essenziale un clima di collaborazione e condivisione con tutti gli operatori e, con riferimento all’abuso d’ufficio, è fondamentale coordinarsi con l’Europa e farsi carico dei vincoli internazionali che la Costituzione ci impone di rispettare e che suggeriscono di non passare un colpo di spugna su quel reato. Collaborare, condividere, coordinarsi non significa affatto sottrarre a governo e maggioranza le decisioni finali (e la relativa responsabilità); significa avere un’idea pluralista del potere e dimostrare che la giustizia è davvero un “bene comune”, oltre che un pilastro dello stato di diritto, da tutelare soprattutto nella prospettiva di riforme costituzionali.

Ben venga l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione purché abbia il respiro vero della riforma, senza accenti punitivi. Intanto, la norma proposta dal governo Meloni dovrà fare i conti con un principio sacro della Costituzione, sancito nell’articolo 136, quello del cosiddetto “giudicato costituzionale” : quando una norma è dichiarata incostituzionale, non può essere ripresentata né in fotocopia né sotto mentite spoglie. Pertanto, il nuovo, parziale, intervento del governo si dovrà misurare con la sentenza della Consulta n. 26 del 2007, scritta dal penalista Giovanni Maria Flick, che bocciò la legge Pecorella voluta da Berlusconi.

Nordio esclude qualunque violazione. Ma attenzione: la portata di quel principio è stata chiarita dalla Corte costituzionale nel 2020, con la sentenza n. 256 scritta dal costituzionalista Nicolò Zanon, in cui tra l’altro si legge: “Il giudicato costituzionale è violato non solo quando è adottata una disposizione che costituisce una “mera riproduzione” di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche quando la nuova disciplina mira a perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti”.

Sono trascorsi sette mesi da quanto Nordio ha annunciato ripetutamente la sua grande e urgente riforma della giustizia. Il 7 giugno, rispondendo al question time alla Camera, il ministro ha elencato le varie misure in programma per il Consiglio dei ministri di giovedì scorso senza citare la norma sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, forse per l’esigenza di un supplemento di riflessione. Poi è sopraggiunta la morte di Berlusconi ed ecco che, nel pacchetto “in memoria” dell’ex leader di Forza Italia, compare anche la “nuova” inappellabilità.

Due righe secche alla lettera n) dell’articolo 2 del Ddl governativo, per dire che “il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2”, ovvero i reati, di varia natura, per i quali si può procedere con la citazione diretta, puniti fino a 4 anni di carcere. Ora passa al Parlamento, in particolare alle commissioni Affari costituzionali, la verifica sul rispetto del “giudicato costituzionale” e poi al presidente della Repubblica in sede di promulgazione (il contrasto con il “giudicato costituzionale” impedisce la firma del capo dello Stato). Infine, se la legge entrerà in vigore e dovesse essere impugnata, si pronuncerà anche la Corte costituzionale.

Così è accaduto, ad esempio, per una norma del 2010, più volte modificata, in materia di concessioni idroelettriche e di somme versate dai concessionari ai comuni e allo Stato. Nonostante ben due sentenze di incostituzionalità, il legislatore ha insistito e nel 2020 la Corte, con la sentenza 256, ha riscontrato la violazione del “giudicato costituzionale” che, ha detto, sussiste “non solo laddove il legislatore intenda direttamente ripristinare o preservare l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale ma ogniqualvolta una disposizione di legge intenda mantenere in vita o ripristinare, se pure indirettamente, “gli effetti della struttura normativa” che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale”.

Quando, nel 2006, fu bocciata la legge Pecorella, la Corte scrisse: “La menomazione del potere del pm eccede il limite della tollerabilità costituzionale, in quanto non è sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e unilaterale della menomazione stessa”. Oggi siamo, di nuovo, di fronte a un intervento parziale, e non di sistema. La domanda è: perché il governo, preso dal sacro fuoco garantista, non ha recepito interamente la proposta formulata (prima della riforma Cartabia) dalla commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi, che prevedeva l’inappellabilità da parte del pm di tutte le sentenze di proscioglimento ma all’interno di una rivisitazione complessiva del giudizio d’appello, così da razionalizzare anche l’impugnazione da parte dell’imputato? Nordio e il governo non si sono mossi nella logica della revisione di tutto il giudizio d’appello (e di tempo ne hanno avuto, tanto più che avevano anche il lavoro già fatto) ma hanno lasciato invariato il quadro complessivo. E allora è legittimo chiedersi se la riforma Nordio non sia un nuovo tentativo di “menomazione” del potere del Pm, “oltre i limiti della tollerabilità costituzionale”.