di Ennio Amodio
Il Dubbio, 27 gennaio 2023
Bisognerebbe proprio fare una pausa. Smettere di discutere e strepitare sulle intercettazioni telefoniche nelle indagini penali, per almeno una settimana. E approfittare della moratoria per dare una occhiata alla Costituzione e al codice di procedura penale, leggere qualche sentenza della Cassazione e mettere in fila le diverse modifiche intervenute in materia negli ultimi dieci anni.
Il dibattito che si è svolto in questi giorni nelle sedi politiche e nei talk show televisivi è davvero penoso e “tumultuario”, per usare il lessico di Cesare Beccaria. Ricorda certe scene chiassose della Commedia dell’arte in cui si improvvisa a getto continuo mandando in soffitta il buon senso. Qualcuno indossa i panni del Dottor Sottile e predica come un sacerdote della scienza processuale, senza però riuscire a nascondere di aver appreso quanto riesce a dire da un amico magistrato la sera prima.
Altri recitano la parte del Burbero Moralista accendendosi di indignazione per la presunta imminente abolizione delle intercettazioni nella lotta alla mafia, senza avvedersi che una simile prospettiva ha una plausibilità uguale allo zero. Nemmeno in una Repubblica delle banane si rinuncerebbe alla captazione investigativa delle comunicazioni per combattere il crimine organizzato. È vero però che chi si è spinto fino ad ignorare il diritto pur di far salire il livello dello scontro politico può invocare l’attenuante del procurato allarme. Senza avere in mano una mappa anche provvisoria dell’itinerario riformatore, il Ministro della Giustizia ha acceso una miccia che ha fatto esplodere una guerra sulle intercettazioni.
Più che la ragion, poté la sfida, si potrebbe annotare nell’eco di un verso dantesco. Perché è sembrato a tutti che il Ministro abbia voluto esternare una perentoria dichiarazione di intenti demolitori piuttosto che un invito a riflettere insieme su nuovi orizzonti di riforma. Ho lavorato per molti anni al Ministero della giustizia per scrivere con i colleghi della Commissione Pisapia le norme del codice di procedura penale vigente, ma non mi è mai capitato di vedere uno dei Guardasigilli di quel periodo, Mino Martinazzoli o Giuliano Vassalli, affacciarsi a una finestra del palazzo di via Arenula per proclamare all’universo mondo che stava per arrivare la rivoluzione copernicana della giustizia penale. E sì che era proprio vero.
Se si vuol ora mettere un po’ d’ordine in quell’attività investigativa che la Cote Suprema statunitense definisce “sequestro di voce”, si deve procedere distinguendo almeno due piani. Il primo è quello che investe il problema della pubblicazione dei contenuti delle conversazioni intercettate. Qui il legislatore ha già provveduto nel 2017 vietando opportunamente di divulgare i colloqui captati che sono ritenuti dal giudice irrilevanti. Ma non basta, c’è un grave abuso che va bloccato. I pubblici ministeri, quando vogliono far patire all’indagato la gogna mediatica, infilano nella loro richiesta di custodia cautelare i passaggi più coloriti dei colloqui intercettati, per farli poi arrivare ai media attraverso la pubblicazione dell’ordinanza del gip che dispone la misura restrittiva.
Bisogna quindi chiudere questa valvola di sfogo mediatico introducendo il divieto di pubblicare l’ordinanza cautelare la cui diffusione viola la presunzione di innocenza dell’indagato. Non va poi dimenticato l’abuso consistente nell’usare l’intrusione nei colloqui telefonici come una rete a strascico, da gettare nella speranza che qualcosa venga fuori. È una operazione che talvolta dura anche più di un anno e può generare il fenomeno del pubblico ministero “a sdraio”, come si dice nel gergo forense. Il magistrato attende comodamente che la polizia gli porti su un piatto d’argento qualche buon risultato esonerandosi dal fare qualsiasi indagine.
Anche qui è necessario un ritocco legislativo per rendere invalicabili i confini temporali di una attività che scandaglia la vita privata di decine o centinaia di persone in violazione del dettato costituzionale. Ha perciò ragione il Ministro: le prassi abusive ci sono e vanno estirpate. Ma non si può vendere la pelle dell’orso ancor prima di aver mirato con cura per cercare di colpire le parti giuste del bersaglio.