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di Ilaria Dioguardi

vita.it, 22 novembre 2023

L’associazione Antigone dal 2010 cura Jailhouse Rock, con storie di musica e di carcere che si attraversano le une con le altre. Alla trasmissione radiofonica collaborano detenuti del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso e del carcere milanese di Bollate, che realizzano il giornale radio e suonano le cover degli artisti. Da 14 anni ogni settimana va in onda Jailhouse Rock, su Radio Popolare e altre radio italiane. Curato dall’Associazione Antigone e realizzato con la collaborazione di detenuti delle carceri di Rebibbia e di Bollate, è la prima esperienza del genere. “Ogni settimana, i detenuti realizzano anche un Giornale radio dal carcere trasmesso all’interno del programma, e le cover degli artisti che ascoltiamo nella puntata”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che conduce Jailhouse Rock insieme a Susanna Marietti.

Gonnella, come nasce Jailhouse Rock?

È una trasmissione radiofonica fatta a due voci, due teste e quattro mani, che siamo io e Susanna Marietti. Siamo alla quattordicesima stagione radiofonica, siamo nati su Radio Popolare, la trasmissione viene ripresa anche da altre radio. 14 anni fa io e Susanna abbiamo condiviso un’idea e due passioni. Le due passioni sono la musica e le storie di carcere, condividiamo 27 anni di militanza nell’associazione Antigone. Ci siamo chiesti: come possiamo coniugare i temi della giustizia penale, dei diritti dei detenuti insieme alla passione musicale? Abbiamo pensato di fare una trasmissione che unisce l’informazione, la cultura e l’intrattenimento. Dal 2010 dedichiamo ogni puntata ad un musicista o cantante che ha avuto un arresto, un’accusa, che in qualche modo è andato a finire tra le maglie della giustizia. Questo ci consente, a partire da una storia, di raccontare altre storie.

Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, conduttori di Jailhouse Rock

Qualche esempio di storia di musica che si intreccia con i temi trattati?

Nella trasmissione abbiamo parlato, ad esempio, di un grande cantautore sudamericano, Victor Jara, e di Screaming Jay Hawkins, uno dei più grandi del blues del secondo dopoguerra. Entrambi hanno avuto storie di torture alle spalle: Jara da un regime di Pinochet, morto nello stadio di Santiago del Cile, Hawkins è stato ucciso dai giapponesi nella seconda guerra mondiale. Queste storie ci consentono di parlare di torture, di attualizzare il tema, raccontandolo a nostro modo, con le conoscenze di Antigone.

Come si è arricchita nel tempo la trasmissione?

Si è arricchita di spunti che arrivano dalle carceri, con contributi audio dal carcere romano di Rebibbia e da quello milanese di Bollate. Alcuni detenuti preparano ogni settimana una sorta di giornale radio, che trasmettiamo durante ogni puntata. Inoltre, a Milano abbiamo una nostra cover band, formata da persone recluse in carcere. Noi qualche giorno prima comunichiamo loro l’autore di cui parleremo e che andremo ad ascoltare in trasmissione, loro ci mandano una cover di quest’autore interpretata da loro e la mandiamo in onda. La nostra trasmissione è anche diventata un libro Jailhouse rock. 100 musicisti dietro le sbarre (editore Arcana). A breve uscirà un altro libro Jailhouse Rap.

Come avviene il lavoro di redazione?

Il Giornale radio dal carcere (Grc) elaborato è il lavoro di una settimana delle persone detenute che collaborano con noi nelle due carceri. Si incontrano con i nostri giornalisti volontari e costruiscono le notizie. Ogni puntata il Grc va in onda per una decina di minuti, anche con questo format andiamo in onda da 14 anni. Si cerca di stimolare la produzione di notizie e di costruire la capacità di capire cosa è notizia e cosa non lo è. Nel caso di Roma, ci si incontra due volte a settimana, una prima volta per scegliere i temi su cui approfondire le notizie, la seconda per produrre le notizie.

Quali sono i temi che solitamente si approfondiscono?

Le notizie possono essere temi che hanno a che fare con il carcere, oppure si ragiona su qualcosa che è accaduto fuori, a volte si tratta di temi legati alla pena ma non necessariamente. Una delle cose più raffinate che è stata prodotta, qualche anno fa, è stata una serie di puntate girate sul tema del suicidio in carcere. È stata una vera e propria inchiesta. Dei detenuti si sono trasformati in giornalisti interni e hanno fatto agli operatori (psicologa, direttore, altri detenuti) domande sul suicidio, sia dal punto di vista della prevenzione sia della tragedia. A Milano il giornalista volontario è Paolo Aleotti, autore Rai molto noto. A Roma abbiamo avuto, come volontario giornalista, per dieci anni Giorgio Poidomani (ex amministratore delegato de L’Unità e tra i fondatori de Il Fatto Quotidiano. Poidomani ha messo in piedi la redazione romana, fino all’anno scorso, all’età di 87 anni, due volte a settimana prendeva la metropolitana e andava a Rebibbia, mi ha detto che forse sono stati i dieci anni più belli della sua vita. Ora abbiamo due giornalisti, Stefano Bocconetti e Federica Delogu.

Quanto c’è bisogno di progetti come questo in carcere?

Ce n’è bisogno come il pane, di tutto ciò che è offerta culturale, lettura, musica. La musica potrebbe avere un grandissimo effetto terapeutico. I detenuti a Bollate hanno una sala prove, dove possono suonare e provare. Questo dovrebbe essere più facile, nelle carceri, invece si può solo vedere la televisione digitale. Se ai detenuti fosse data loro l’opportunità di avere un pc o un tablet, anche slegato dalla rete, per far loro sentire la musica, vedere dei film, leggere dei libri, li aiuteremmo a crescere, a emanciparsi dai loro precedenti. La musica è importante, è un luogo privo di pregiudizi che altri mondi hanno. Se una persona esce dal carcere, è difficile che trovi un lavoro come baby sitter, ma se si presenta per fare il tecnico del suono nei concerti, è più facile che si assuma: è un mondo che ha bisogno di manodopera e che ha meno pregiudizi. Se vogliamo costruire sicurezza nel paese e prospettive di reinserimento si tratta di ragionare non con la pancia, ma con il cervello. Bisogna pianificare, fare fatica, organizzare, creare occasioni e aprire.

La parola rieducazione, da più parti, non sembra più la più idonea, quando si parla di detenuti...

La stessa Corte costituzionale più volte ha ribadito che la rieducazione dei detenuti è offerta di recupero sociale, integrazione. È molto difficile, anche perché se vediamo la composizione della popolazione detenuta, capiamo che una parte delle persone che arrivano in carcere già ha subito forme di esclusione sociale all’esterno. Ci sono persone con problemi psichiatrici, immigrati che hanno già fatto un percorso di emigrazione, tossicodipendenti, persone che vivono in povertà estrema. Il compito è molto complesso, è chiaro che è difficile chiedere al carcere di essere l’ultima frontiera del welfare. Ma in realtà è proprio questo: il carcere oggi è l’ultimissima frontiera del welfare. Se fallisce anche il carcere, è finita per quella persona.