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di Salvatore Curreri

Il Riformista, 12 novembre 2022

Il rinvio è stato deciso sulla base di un decreto non ancora convertito, eterogeneo - e quindi a detta della stessa Corte incostituzionale - e persino peggiorativo della legge precedente. C’è da essere perplessi.

Per quanto prevedibile e prevista, l’ordinanza - anticipata con comunicato stampa - con cui la Corte costituzionale ha deciso di non decidere sul cosiddetto ergastolo ostativo, rinviando gli atti alla Cassazione penale che aveva sollevato la questione d’incostituzionalità, desta talune perplessità sotto il profilo giuridico e, soprattutto, lascia l’amaro in bocca a chi ancora riesce a scorgere dietro l’apparente astrattezza delle questioni giuridiche la vita di persone che oggi subiscono un trattamento penitenziario illegittimo e però ancora una volta prorogato.

Illegittimo perché così la Corte costituzionale (ordinanza n. 97/2021), e ancora prima la Corte europea dei diritti dell’uomo (13.6.2019 Viola c. Italia n. 2 confermata dalla Grande Camera, 8.10.2019), ha giudicato il divieto assoluto per i condannati all’ergastolo per reati di particolare allarme sociale (tra cui mafia e terrorismo) che non hanno collaborato con la giustizia di potere accedere dopo ventisei anni di pena alla libertà condizionale, al pari degli altri condannati.

Il “fine pena mai” per costoro costituisce, infatti, un trattamento inumano e degradante in contrasto con la finalità rieducativa della pena. Non perché si voglia sminuire o rendere irrilevante il significato della collaborazione (in questo - e solo in questo - può giustificarsi il richiamo alla memoria di Giovanni Falcone) ma perché è irragionevole ritenere questa l’unica condizione per accedere ai benefici penitenziari, escludendo coloro che - ripetiamo: dopo ventisei anni - hanno dato piena prova di essersi allontanati dal sodalizio mafioso e di fattiva partecipazione al percorso rieducativo.

Se, infatti il legislatore può legittimamente premiare chi collabora con la giustizia, di contro non può sanzionare chi non lo fa, presumendo in modo assoluto e senza prova contraria che la scelta di non collaborare implichi la perdurante collaborazione con l’organizzazione criminale d’appartenenza. Come la scelta di collaborare con la giustizia non implica di per sé “un vero pentimento” e la “decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”, potendo essere dettata da ragioni utilitaristiche di convenienza, così la scelta di non collaborare non equivale ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale, per assenza di ravvedimento o persistenza di contatti con le organizzazioni criminali, ma può essere dettata da ragioni diverse che rendono tale rifiuto non libero (ad esempio, per l’integrale accertamento dei fatti, la limitata partecipazione al reato o il timore di ritorsioni contro i propri cari).

Occorre dunque distinguere tra chi oggettivamente può, ma per scelta soggettiva non vuole collaborare (Cass., I pen. 41329/2022) e chi soggettivamente vuole ma oggettivamente suo malgrado non può collaborare (Cass., V pen. 36887/2020) perché come ci si può ravvedere anche senza collaborare, così si può tacere senza per questo essere omertosi.

Sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale l’anno scorso ritenne in contrasto con la finalità rieducativa della pena non l’ergastolo ostativo in sé ma l’automatica esclusione dalla libertà condizionale degli ergastolani non collaboranti. Trattandosi però di una condizione di estinzione della pena, e non di sua semplice sospensione (come nel caso dell’esclusione di costoro dai permessi premio, dichiarata incostituzionale: sentenza n. 253/2019), la Corte allora decise - per esigenze di collaborazione istituzionale - di rimettere al legislatore il compito di ridefinire la materia dapprima entro il 15 maggio 2022 (ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021) e poi entro 1’8 novembre 2022 (ord.122/2022), concedendo inusualmente un’ulteriore proroga in considerazione del testo legislativo approvato dalla Camera lo scorso 31 marzo.

Nonostante i 18 mesi trascorsi, le Camere, come al solito, non sono riuscite ad approvare la riforma per cui, in vista della predetta scadenza, è dovuto intervenire il Governo con il decreto legge n.162/2022 approvato lo scorso 31 ottobre che riprende in massima (ma non totale) parte il testo approvato dalla Camera il 31 maggio 2022 con il consenso di Pd, MSs, Forza Italia e Lega.

In realtà il vero obiettivo di Fratelli d’Italia è modificare l’art. 27 della Costituzione per abrogare di fatto la finalità rieducativa della pena e vietare agli ergastolani ogni beneficio penitenziario. Ma poiché, come candidamente ammesso dalla presidente del Consiglio, tale obiettivo è al momento impossibile, si è preferito riproporre il testo approvato dalla Camera.

Com’è stato scritto su queste colonne, con chiarezza d’argomenti e vis comunicativa, dal collega Pugiotto, si tratta di un testo che solo apparentemente accoglie quel bilanciamento auspicato dalla Corte tra i diritti dell’ergastolano e le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso.

In realtà, esso introduce tutta una serie di condizioni e di limiti che rendono di fatto impraticabile l’accesso alla libertà condizionale agli ergastolani non collaboranti: si aumentano i reati ostativi, includendo i principali contro la pubblica amministrazione nonché i casi di pene concorrenti inflitte per delitti diversi se commessi per lo stesso fine (ecco il peggioramento rispetto al testo approvato dalla Camera); si aumentano, rispetto agli ergastolani collaboranti gli anni di carcere (da 26 a 30) da scontare prima di poter chiedere l’accesso alla libertà condizionata, il cui periodo viene a sua volta prolungato da 5 a 10 anni; si obbliga il richiedente a provare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata non solo attuali ma futuri (una vera e propria probatio diabolica); si abrogano i casi, oggi previsti, di collaborazione impossibile (perché fatti e relative responsabilità erano stati integralmente accertati) oppure inesigibile perché oggettivamente marginale e irrilevante.

Di fronte ad un decreto legge che formalmente dà seguito alla sentenza della Corte ma ne rinnega di fatto le indicazioni, potevano i giudici costituzionali decidere altrimenti? Per quanto sia ormai inutile chiederselo (e non solo perché la decisione è stata già presa...), ci sono tre elementi critici da evidenziare. In primo luogo, sotto un profilo strettamente giuridico la Corte ha rinviato la questione sulla base di disposizioni contenute in un decreto legge in fase di conversione e che quindi può essere modificato o, per quanto sia politicamente improbabile, addirittura respinto. Prudenza avrebbe voluto quindi che la Corte avesse ulteriormente rinviato la questione di qualche settimana, così da avere certezza dell’approvazione del provvedimento.

Evidentemente, invece, la Corte ritiene certa la conversione del decreto legge. Ma questa è una previsione politica, che un giudice che si basa sul diritto vigente (in questo caso provvisorio) non dovrebbe consentirsi. In secondo luogo, la Corte si è trovata per la prima a giudicare su un decreto legge in fase di conversione il cui contenuto è manifestamente eterogeneo perché contiene misure urgenti, oltreché sull’ergastolo ostativo, anche per il rinvio della riforma del processo penale, di contrasto dei cosiddetti rave party e di riammissione di medici e infermieri no-vax.

Insomma siamo dinanzi a uno di quei decreti legge omnibus che la Corte ha diverse volte giudicato incostituzionali a causa di disposizioni presenti nel testo del tutto estranee o incoerenti rispetto al suo oggetto, contenuto, finalità o ratio dominante.

La Corte ha affrontato tale profilo d’incostituzionalità o l’ha volutamente omesso ai fini del proprio giudizio? Infine, in terzo luogo, la Corte dovrebbe prendere finalmente atto che, per quanto ispirate al principio di leale collaborazione, le proprie sentenze monito e da ultimo, le ordinanze con cui, anziché - come dovrebbe per Costituzione - dichiarare incostituzionale una disposizione, fissa un termine entro cui il legislatore deve rimediare, continuano a non trovare seguito. Così è stato per la pena carceraria (ai giornalisti) in caso di diffamazione (132/2020-150/2021), per l’aiuto al suicidio (207/2018- 242/2019) ed ora per la revisione dell’ergastolo ostativo. Evidentemente una fiducia mal riposta nelle capacità decisionali del legislatore, il quale, ciò nonostante, gode ora di un’ulteriore apertura di credito ai fini non tanto della approvazione della nuova normativa quanto dell’effettivo recepimento delle indicazioni della Corte.

Si obietterà: verrà comunque il giorno in cui la Corte avrà modo di pronunciarsi sulla nuova normativa e, se del caso, dichiararla illegittima. A parte che ciò significa implicitamente ammettere l’inutilità di tale rinvio, dato che sicuramente di fronte a un peggioramento della normativa, la Cassazione non potrà che ribadire l’eccezione d’incostituzionalità a suo tempo sollevata, peccato che in questa vicenda il fattore tempo non è irrilevante perché, come detto all’inizio, ci sono ergastolani, a cominciare da chi ha sollevato la questione di costituzionalità, che stanno patendo uno stato detentivo che la stessa Corte ha già riconosciuto illegittimo.

Forse è da qui che si dovrebbe partire, dalla storia di Domenico Papalia in carcere da 44 anni, per contrastare la narrazione degli ergastolani che devono marcire in carcere. Perché, come scrisse Foster Wallace, noi crediamo di sapere tutto sui diritti umani e sulla dignità umana e quanto sia terribile privare qualcuno della propria umanità ma solo se succede a qualcuno che conosci, allora sì che lo sai per davvero.