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di Francesco Grignetti

La Stampa, 2 giugno 2022

L’ex procuratore aggiunto di Milano: “Non c’è una regola su cosa meriti di essere diffuso. Garanzie giuste, ma i procuratori scelgono cosa si deve sapere e cosa no: non mi piace”.

Davvero troppo facile, rifiutarsi di dare ogni notizia per evitare rogne. Riccardo Targetti, una carriera lunghissima in magistratura, culminata con i mesi di reggente alla Procura di Milano dopo l’uscita di Francesco Greco, non ha mai nascosto le sue perplessità attorno alla legge che limita le informazioni ai giornalisti in nome della presunzione d’innocenza, ma è ancora più critico quando sente che molti suoi ex colleghi si sono rifugiati nel manzoniano “troncare e sopire”. Sospira: “C’è un nodo di fondo”.

Quale nodo?

“Che la legge affida a 150 singole persone in Italia, i procuratori, il rubinetto dell’informazione. Spetta a loro decidere che cosa comunicare e che cosa no. Da cittadino mi sento di dire che è una scelta che mi inquieta. Non mi sembra troppo in linea con i principi democratici. E poi, come faccio, io magistrato, a stabilire che cosa è una notizia di pubblico interesse e che cosa no? Non è il mio mestiere”.

E forse non è neanche il caso che lo sia. Anche se la legge parte da principi condivisibili, o no?

“Sicuramente. Giusto richiamare tutti, magistrati avvocati e giornalisti, al rispetto delle persone e quindi a non sbattere il mostro in prima pagina. Altrettanto giusto far capire a che punto si è del grado di giudizio, fintanto che non è quello definitivo. Mi piace particolarmente, poi, il divieto di citare per nome e cognome il pubblico ministero che segue un’indagine: l’accusa va spersonalizzata, è lo Stato attraverso un ufficio che conduce un’inchiesta, non il singolo. Detto ciò, questa legge è andata oltre”.

Lei, da procuratore facente funzioni di Milano, si è trovato a gestire la novità...

“Ho fatto una circolare applicativa di una legge che pure mi suscitava molte perplessità, e di cui ho debitamente dato notizia attraverso una conferenza stampa alla Casa della stampa. Ho stabilito alcuni punti fermi: tutto ciò che è al di fuori dell’indagine penale non è soggetto ad alcun vincolo. Poi ci siamo regolati con una certa liberalità nei comunicati perché serviva una valvola di sfogo. Ne facevamo due al giorno. Da un certo momento ho anche delegato i miei aggiunti a fare i comunicati, perché Milano è una procura troppo vasta, non potevo passare tutto il mio tempo a scrivere io le notizie, né potevo avere seguito in dettaglio tutte le inchieste”.

Il capo ha l’onere di decidere che cosa meriti di essere comunicato. Ovviamente si tratta di bilanciare interessi contrapposti. Lei come si regolava?

“Il problema è tutto qui. Non c’è e non ci può essere una regola. Ci può essere il caso in cui è utile all’indagine diramare una certa notizia, per vedere l’effetto che fa negli ambienti dove sto indagando. E fin qui è facile. Ma quanto all’interesse pubblico, se pensiamo alla procura di un piccolo centro, allora anche piccoli reati possono essere di interesse pubblico. In grandi città, cambia la scala, ma può entrarci la gravità del reato e anche la notorietà della persona indagata, che può essere di tipo politico, sociale, culturale, e persino - perché no? - calcistica. È evidente che è una spirale incontrollabile”.

Quando una persona viene arrestata, è su ordine motivato di un giudice. Possibile che l’opinione pubblica non ne venga informata e che una persona sia inghiottita dal carcere senza che nessuno possa controllare?

“Guardi, sfonda una porta aperta”.

A Torino come altrove, per evitare guai, i procuratori si sono chiusi a riccio...

“Continuo a non capire come è possibile che si sia affidata ai procuratori la decisione su che cosa è di interesse pubblico. Mi sembra fuori dal mondo. In pratica il potere pubblico decide quello che l’opinione pubblica deve sapere. Scusate, ma non mi piace”.