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di Gianfranco Capitta

Il Manifesto, 5 agosto 2023

In scena il nuovo spettacolo di Armando Punzo “Atlantis cap. 1 la permanenza”. Armando Punzo presenta un suo nuovo lavoro con la Compagnia della Fortezza, nata coi detenuti che da trent’anni circa condividono con lui questa passione artistica tra le maestose e inquietanti mura rinascimentali della prigione costruita dai Medici. Poche settimane fa a Punzo i direttori Ricci e Forte hanno consegnato il Leone d’oro alla carriera della Biennale veneziana, e grande successo ha ottenuto la versione “lagunare” dello spettacolo realizzato l’anno scorso nelle Saline volterrane.

In questi giorni nasce invece un nuovo percorso: Atlantis, Cap. I La Permanenza, andato in scena ora nel cortile e in un corridoio di celle del carcere volterrano. Tra visioni folgoranti quanto inquietanti degli interpreti (una ventina e forse più, cui si aggiungono altre figuranti femminili) che attraversano lo spazio, ogni momento ridisegnandolo e animandolo sotto un sole come sempre implacabile, Punzo stesso si fa protagonista (unico in voce, grazie anche a un microfono ad alta fedeltà) e conduttore di quel misterico viaggio, una danza senza posa che pare addolcire e a tratti neutralizzare quell’ininterrotto movimento.

Il tessuto, visivo oltre che sonoro, è costituito dalle parole che Punzo legge, governa, a tratti grida e più spesso sussurra, e che lui stesso ha scritto. E gli attori intorno gli disegnano una sorta di fisico coro, prendendo iniziative o lanciandosi in esibizioni di grande abilità fisioginnica. Quello però che fa segnare il passo allo spettatore (e alla sua fedeltà e concentrazione) è forse l’estrema astrazione delle parole di Punzo, la loro complessità che a tratti rischia di suonare fine a se stessa. C’è una cesura netta insomma con gli spettacoli dei primi anni (sono circa trenta quelli che l’esperienza sta per compiere), in cui la “voglia”, quasi disperata, di misurarsi con le scritture e le parole di “fuori”, e con il loro senso, avevano un effetto davvero deflagrante, sia che fossero testi scopertamente teatrali dei primissimi inizi, o quelli letterari più evoluti e vicini alla sensibilità di interpreti e spettatori (ovviamente per ciascuno a suo modo).

Ora prevale nella ricerca di Punzo una sorta di intento filosofico, molto personale e certamente rispettabile, ma non necessariamente condivisibile (e a tratti comprensibile) dallo spettatore. È un “problema” (ma magari del singolo spettatore) che restringe a tratti i detenuti attori quasi a semplici figuranti, per quanto maestosi. E mette a rischio la difficoltà di seguire quelle parole, il loro sviluppo, la loro meta. Come, vien da pensare, alla comprensione di chi al loro ritmo si muove. Ci sono momenti di reale difficoltà alla partecipazione, anche se vi si riconosce un empito profondo e niente affatto casuale.

Viene quasi nostalgia di tanti spettacoli alla Fortezza in cui gli attori si immedesimavano nei “personaggi”, e il risultato era di un creativo stridore che alla scrittura (letteraria o teatrale) conferiva merito e forza. Ora prevale l’aspetto visuale (per i detenuti/attori in fiammanti frac neri o candidi è una sorta di intima epifania), così come potenti risultano gesti, suoni, visioni. Ma resta l’impressione che a quegli attori non dispiacerebbe esprimersi anche a parole.

Punzo cita, nel testo di accompagnamento, un unico scrittore e intellettuale contemporaneo, Walter Siti. Ma chiunque abbia letto (o conosciuto personalmente) lo scrittore, sa bene che lui amava sì attraversare gli inferi dell’anima (e dei corpi), ma era assolutamente e altrettanto pronto a sorriderne e a farne grande letteratura. E perfino di riscriverne, di tutto quel “fuoco” , per una terribile trasmissione televisiva specializzata in tragedie di cuore e di sesso. Abbastanza trash, eppure sublime, e di grande, impunita audience.