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di Emanuele Lombardini

Avvenire, 5 gennaio 2024

Morire in carcere, o peggio ancora morire di carcere. Una condizione che in alcuni penitenziari ha superato il livello di guardia. Lo certifica il report dell’associazione “Ristretti Orizzonti” che nella triste classifica annuale dei morti suicidi in cella del 2023 - ben quattro vittime per penitenziario - ha messo a fianco di Regina Coeli e San Vittore anche il più piccolo istituto di Terni. Cosa sta accadendo da mesi nell’istituto umbro? E come si spiega tutto questo?

Terni è da tempo alle prese con grandi problemi di gestione e deve fare i conti con le ripetute aggressioni ai danni degli agenti e con episodi di autolesionismo da parte della popolazione carceraria. Il primo a togliersi la vita, a gennaio di un anno fa, è stato E.G., detenuto a seguito di inchieste sulla mafia: si è impiccato in cella dopo una rissa con altri detenuti. Poi è stata la volta di un cittadino albanese rinchiuso per aver ucciso la moglie a coltellate. A fine maggio la morte di un uomo di origini marocchine per intossicazione, dopo che quest’ultimo aveva dato fuoco alla cella al termine di una rivolta che lo aveva visto protagonista con altri detenuti.

Infine lo scorso settembre l’ultimo suicidio, sempre per impiccagione, del più giovane, un altro uomo maghrebino appena ventottenne, che era in attesa di essere trasferito al carcere di Capanne a Perugia. Il problema sicurezza, a oggi, rappresenta una montagna troppo alta da scalare per una struttura, quella umbra, dotata anche di un reparto dedicato al 41 bis (in passato ospitò anche Bernardo Provenzano) ma priva del supporto esterno di una Rems, una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in grado di garantire spazi adeguati in particolare alle persone con problemi psichici.

La situazione di promiscuità e difficile convivenza tra detenuti con storie diverse alle spalle fa poi il paio con la cronica mancanza di personale. “Non c’è dubbio che il carcere di Terni sul fronte sicurezza sia uno dei peggiori d’Italia - spiega Fabrizio Bonino, segretario regionale umbro e nazionale del Sappe. Le motivazioni sono diverse e la prima è che un istituto che potrebbe contenere non più di 400 detenuti, ne ospita 500. Ci sono tante sezioni, ma non c’è personale sufficiente per tenere tutto sotto controllo”. La mancanza di personale va estesa peraltro ad altri ambiti. “Lo psicologo viene ad esempio una sola volta a settimana, gli educatori lo stesso: troppo poco per poter prevenire episodi di questo genere” dice Bonino.

“I volontari e le strutture come la Caritas fanno un lavoro egregio e sempre apprezzato, ma purtroppo non è sufficiente”. Un richiamo che nei giorni scorsi era arrivato anche da Giuseppe Caforio, Garante dei detenuti dell’Umbria, che aveva denunciato la rinuncia all’azione di recupero, facendo dunque venire meno il fine ultimo della detenzione: “Il carcere non è il luogo migliore per un processo riabilitativo, al contrario”, aveva sottolineato nei giorni scorsi puntando l’indice sulla necessità di alleggerire la presenza in cella.

“Se uno o più agenti hanno in carico tre piani del carcere e 100 detenuti, come fanno a garantire che non succeda nulla? Il sistema sta andando completamente in tilt, si gestisce solo l’emergenza” rincara la dose Bonino. Riccardo Laureti, segretario regionale della Fns Cisl conferma: “A Terni il problema del sovraffollamento riguarda soprattutto i reparti di media sicurezza, che accolgono detenuti psichiatrici anche dalla Toscana, dove la Rems c’è ma è piena: anche per questo come Cisl ci stiamo battendo perché la Regione ne costruisca una.

Psichiatri e psicologi hanno poche ore assegnate e non ce la fanno e nelle celle ci sono anche fino a quattro detenuti. Al carcere di Terni erano assegnati tre educatori, ma coi pensionamenti adesso non sempre ci sosono e comunque non bastano. Le associazioni di volontariato sono sempre le benvenute, ma non possono fornire quel supporto specialistico che servirebbe. Inoltre mancano anche le opportunità per il reinserimento lavorativo dei detenuti”.

Proprio di recente è nata a questo scopo una struttura presso il convento del Beato Antonio Vici a Stroncone, messa in piedi dall’associazione “Il Leccio” di Disma. Un quadro desolante che fa alzare le braccia in segno di resa anche a chi fornisce supporto spirituale, come spiega il cappellano del carcere padre Massimo Lelli. “Spesso non c’è nemmeno il tempo per conoscere le storie di chi vive dietro le sbarre, perché queste persone vanno e vengono rapidamente” spiega padre Massimo. “Purtroppo il fine di rieducazione, recupero e reinserimento del detenuto si è perso. Ci vogliono persone e mezzi economici: si fa qualcosa ma è molto poco rispetto a quello che servirebbe. Così ci si concentra solo sulla sicurezza, cercando di far fronte alle carenze che ci sono e creano problemi”.