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di Donatella Stasio

La Stampa, 8 maggio 2023

Milani, sopravvissuto alla strage di piazza della Loggia, da 49 anni vive “oltre l’odio”. La destra impari da lui e superi la vendetta: il governo è al test della giustizia riparativa. “Conosco bene la sofferenza delle vittime ma rifiuto l’idea di appartenere a una categoria piuttosto che a una comunità con valori comuni a tutti”.

È la bella lezione di Manlio Milani, sopravvissuto alla strage di Brescia del 28 maggio 1974, quando il terrorismo neofascista gli portò via la moglie Livia e gli amici, con i quali era in piazza della Loggia a manifestare contro l’eversione nera. I morti furono otto, 102 i feriti. Parole non facili per chi piange le vittime degli “anni di piombo”; spiazzanti per chi scambia il rispetto per le vittime con l’uso, talvolta strumentale, del loro dolore e ne fa, appunto, una categoria da contrapporre al nemico di turno: che sia il colpevole, il diverso, lo straniero o anche solo un’idea politica, fa lo stesso.

Manlio Milani ha speso 49 dei suoi 85 anni per dare a quel dolore anche una dimensione pubblica, che vada oltre il rancore, la vendetta, il nemico e che abbracci, invece, i valori della Costituzione, il confronto, il dialogo, la comprensione, l’accoglienza, l’appartenenza a una comunità. Questa cultura, schiettamente costituzionale, gli ha consentito di affrontare anche un percorso di giustizia riparativa in cui ha incontrato gli appartenenti alla lotta armata degli anni Settanta. Lì si è messo in gioco fino a pensarsi “vittima non innocente”, convinto che storicizzare il dolore, fare memoria, sia la strada per elaborarlo e per superare l’odio. Una lezione fondamentale, oggi più che mai, per commemorare tutte le vittime del terrorismo.

Manlio Milani nasce a Brescia nel 1938 da una famiglia popolare. Lascia gli studi dopo la quinta elementare perché deve lavorare (prenderà la licenza media nel 1978); nel ‘59 si iscrive al Pci e poi alla Cgil; partecipa al Gruppo culturale Antonio Banfi dove conosce Livia, professoressa di lettere nelle scuole medie, che sposa nel 1965. Nove anni dopo, la bomba di piazza della Loggia la uccide insieme ai suoi amici più cari.

Da allora non si è più fermato nella ricerca di giustizia e verità ma anche e soprattutto delle ragioni di quella strage. Costituisce e presiede l’Associazione familiari delle vittime ma nel 2000 fonda, con il comune e la provincia di Brescia, la Casa della memoria, centro di documentazione sulla strage e la violenza terroristica, in particolare fascista.

“Come Associazione correvamo sempre il rischio che ogni nostra proposta venisse percepita come reazione all’ingiustizia subita. Perciò decidemmo di andare oltre e costituimmo la Casa della memoria, per presentarci non più come vittime ma come persone che, insieme alle istituzioni, hanno come obiettivo la comprensione del fatto, la ricostruzione della memoria come fatto pubblico, che riguarda tutti e serve anche alla vittima per andare oltre e chiedersi come sia accaduto”. Il ricordo è la ricostruzione del fatto; la memoria ne è l’elaborazione e aiuta a cogliere l’invisibile.

“Ricordati che quella bomba ha colpito tutti” gli dissero tra gli abbracci, quando nel pomeriggio tornò a piazza della Loggia. Lì capì di non essere solo una vittima, ma anche un testimone. Parole decisive come quelle del vescovo di Brescia, durante il funerale: “Non dimentichiamo Caino”. “Scatenò una marea di polemiche, anche nella Chiesa - ricorda Manlio - ma dentro di me, invece, cominciarono a vociare tante domande: come mai questi ragazzi, quasi tutti tra i 18 e i 20 anni, hanno potuto fare questo? Chi sono? In quale contesto si sono mossi? Domande alle quali il processo non può dare risposte alla vittima. E allora sei a un bivio: o ti chiudi nel dolore e sopravvivi misurando il tuo tempo sul tempo del carcere del condannato oppure fai di quel dolore un’esperienza positiva, una testimonianza, un racconto che gli dia una dimensione pubblica: devo capire le ragioni di quel fatto, devo chiedermi perché si è arrivati a quella violenza. C’è sempre una ragione e dobbiamo cercarla. Diventi testimone della storia, metti al centro la persona e il superamento dell’odio. Non sei più vittima ma cittadino, sei parte della comunità e dei suoi valori”.

Con questa storia alle spalle, nel 2009 Manlio viene coinvolto nel percorso di giustizia riparativa insieme ad altre vittime e ad alcuni ex terroristi rossi degli anni ‘70. Il processo, scandito da una serie di depistaggi, era cominciato nel 1979; le condanne definitive dei colpevoli, due neofascisti, arriveranno solo nel 2017. “Volevo capire come si può arrivare a questo punto, chi erano questi “mostri”. Ma mi chiedevo: sarò in grado di stringere la loro mano? E invece è stato semplicissimo. Il contatto corporeo ha fatto cadere il primo muro. L’altro passaggio chiave è stato l’incontro annuale di una settimana durante la quale vivevamo insieme, parlavamo, ci confrontavamo. Quella prossimità - mangiare insieme, lavare i piatti, fare una vita comune - ti faceva capire che l’altro è davvero come te. Io mi sono iscritto al Pci nel 1959 e, quindi, loro facevano parte della mia stessa storia, ma perché loro avevano fatto quella scelta e io no? Una risposta l’ho trovata nella mia militanza sindacale che mi imponeva di confrontarmi con Cisl e Uil. Lì ho capito il valore del dialogo e in quegli anni la dimensione del dialogo è stata importantissima per non attraversare il confine, sottile, che portava alla lotta armata”.

Dunque, la vittima può andare oltre il suo dolore. Ma ciò implica un passaggio ulteriore. “Spesso diciamo che le vittime sono innocenti. È chiaro che se mi limito al fatto in sé, sono innocente, ma se voglio capire e rispondere alla domanda “com’è possibile che sia accaduto”, devo mettermi storicamente al passo di quella persona. Anch’io, quando andavo nei cortei, incitavo alla violenza. Gridavo: “Basco nero, il tuo posto è il cimitero”. Perché non ho rifiutato quel linguaggio? Se lo avessi fatto, forse avrei limitato il rischio di quella violenza. Lo stesso discorso vale per l’indifferenza: chi è stato indifferente a quelle violenze non può dirsi innocente. Certo, se penso a bambini di due anni ai quali il terrorismo ha ucciso il padre, non posso incolparli di nulla e capisco il rifiuto di condividere questo ragionamento; ma resto convinto che questo sforzo di comprensione vada fatto. Non possiamo pensare di essere innocenti rispetto alla storia. Io sento di avere delle responsabilità perché quel linguaggio alimentava l’idea del nemico”.

Una lezione, quella di Manlio, che ci richiama alle responsabilità dell’oggi. Viviamo in una società pervasa dall’odio; il discorso pubblico si nutre di radicalizzazioni e ha smarrito parole chiave come rispetto, pluralismo, confronto, bilanciamento, uguaglianza, né la classe dirigente sembra capace di recuperarne il senso; la destra di governo tradisce risentimento nel linguaggio e nei comportamenti e rivendica i “suoi” morti degli anni Settanta, dimenticando tutti gli altri, in una logica di contrapposizione funzionale all’ostinato rifiuto di dirsi antifascista; l’esecutivo cavalca la cultura della vendetta con nuovi reati, pene più severe, carcere duro: ne riconosce l’inutilità ma dice che sono un “segno di attenzione” dello Stato verso i cittadini. Dov’è, in tutto questo, la cultura costituzionale?

Ecco perché Manlio Milani - al quale i presidenti della Repubblica Scalfaro e Napolitano hanno conferito onorificenze - dev’essere un esempio per tutti, fuori e dentro i palazzi delle istituzioni. Oggi la sua lezione ci dice quanto sia urgente attuare la riforma Cartabia sulla giustizia riparativa. Dal ministero assicurano che entro fine giugno taglierà il traguardo e che non è rinviabile perché fa parte del Pnrr. Ma senza una forte spinta culturale, e politica, la riforma fallirà.

A Brescia c’è un percorso di 441 pietre di inciampo che attraversa la città, con i nomi di tutti i caduti del terrorismo, senza distinzioni. “Nella morte le vittime sono tutte uguali ma è nella storia che si dividono”, diceva Calvino. “E questo andiamo a dire nelle scuole, vittime e autori del reato, insieme - spiega Manlio - per cercare di capire la violenza e superare l’odio. Lo facciamo da anni e lo faremo anche il 28 maggio, anniversario della strage. Nel vederci insieme, i ragazzi si sentono un po’ spiazzati ma poi capiscono che la forza di trasformare il dolore in un atto politico è importantissima. Perciò è fondamentale la giustizia riparativa, perché è una cultura. E quindi, un atto politico”.