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di Antonio Polito

Corriere della Sera, 26 novembre 2023

Stamane vorrei parlare della vita. In fin dei conti è parte integrante della “polis”, il tema cui è dedicato questa rubrica. E il personale - come si diceva una volta - è politico. Vorrei parlare della tragedia di Alberto Re, l’imprenditore di Agrigento che a 78 anni la vita se l’è tolta. A quanto dice la famiglia, e come lui stesso avrebbe lasciato scritto in un ultimo biglietto, perché si è sentito travolto oltre ogni possibilità di accettazione dall’onda di sfottò e critiche con cui sui social e sui media era stato bollato un suo insuccesso. La serata inaugurale del festival che aveva organizzato e cui tanto teneva era andata completamente deserta, neanche un ospite.

Sembra una storia incredibile. E invece ci si può uccidere per un fallimento. Credo anzi che buona parte dei suicidi reagiscano proprio a un fallimento. E penso anche che questa storia ci dica qualcosa di molto istruttivo sulla terza età, sui nostri anziani o vecchi che dir si voglia. Sul senso di espropriazione e di estraneazione che un’intera generazione avverte man mano che intorno a loro si fa il vuoto. Magari sono state persone di successo, comunque attive, rispettate, ascoltate, come nel caso di Alberto Re, dalla comunità in cui hanno vissuto. Magari hanno fatto molto per quella comunità, compreso un festival culturale. E però a un certo punto scoprono che nessuno li ascolta più, che vivono insomma in un mondo che non è più il loro.

In fondo è questo che intende un vecchio con un gesto definitivo come quello di Alberto Re; ma anche più semplicemente con le parole, quando ci dice che è stanco della vita. Di solito noi interpretiamo che sia stanco della “sua” vita. Oppure ci stupiamo, se la vita di cui si tratta è quella di una persona ancora ricca di interessi e dotata degli strumenti culturali per apprezzarne fino in fondo la bellezza. Invece io credo che non ci stiano parlando della “loro vita”, ma della nostra. Sono stanchi di come viviamo noi. Di come è la vita che ogni giorno proponiamo loro. In una bellissima intervista al Corriere, rilasciata alla vigilia dei suoi 80 anni, Riccardo Muti diceva: “A volte mi sembra di parlare ai sordi”.

È quello che deve essere accaduto ad Alberto Re. Solo che nel suo caso i “sordi” hanno anche “urlato” contro di lui con rabbia e cattiveria, per umiliarlo di fronte a un fallimento. E gli anziani difficilmente sono in grado di “gestire” un fallimento, gettandoselo alle spalle e ripartendo. Non ne hanno più la forza, e neanche il tempo.

I baby-boomers, poi, la generazione di quelli nati dopo la guerra che adesso stanno arrivando a fine corsa, sono stati abituati nel tempo ad avere successo, a comandare, a guidare aziende e insegnare ai giovani. Hanno dominato la scena a lungo, e tutto sommato bene, visti i progressi che ha compiuto questo nostro Paese, uscito in macerie dalla tragedia della guerra e del fascismo, e rapidamente asceso alle prime posizioni mondiali per benessere e ricchezza. Per loro insomma è più difficile mettersi da parte, accettare l’idea che non hanno più niente da dire o che comunque gli altri non hanno più voglia di ascoltare.

La gente del Novecento è stata “pervertita dall’idea romantica dello splendore della scena della storia nella quale noi siamo attori: noi siamo abituati ad operare tenendo d’occhio il pubblico”, ha magistralmente scritto Karl Popper. “Comandare o sottomettersi” è stato il mantra del secolo scorso, e ci rimasto attaccato addosso. L’errore che abbiamo commesso - e che forse ha portato Alberto Re a una morte prematura e ingiusta - è non aver capito che la giustezza delle nostre idee non può essere misurata con il metro dei risultati prodotti, e che “è soltanto la nostra coscienza, e non il nostro successo mondano, che può giudicarci”. “Abbiamo bisogno di un’etica che invece disprezzi il successo e il compenso - concludeva Popper. E un’etica siffatta non dobbiamo inventarla, e non è neppure nuova: è stata inventata dal cristianesimo, almeno ai suoi inizi”.

Su questa nostra debolezza si infilano oggi i nuovi tempi, sfruttando l’amplificatore formidabile della Rete e dei social. Per giudicare invece ogni momento gli esseri umani sulla base del loro successo. E condannarli se qualcosa che fanno per gli altri non riesce a raggiungerli. Vorrei che Alberto Re avesse pensato a tutto questo prima di spararsi un colpo. E vorrei che ci pensassimo tutti oggi, a partire dal “branco” che l’ha linciato fino a renderlo così disperato.