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di Irene Famà

La Stampa, 17 novembre 2023

Parlano Monica e Carlo Gaffoglio, i genitori del 24enne suicida in cella. “Il carcere è sordo con le persone fragili”. Mamma Monica e papà Carlo riflettono su due parole: abbandono e accoglienza. Il loro dramma e la loro missione sono racchiusi tutti lì dopo che il figlio, Alessandro Gaffoglio, ventiquattro anni, è morto suicida in cella al Lorusso e Cutugno.

La psichiatra che lo aveva in cura è stata indagata. La responsabilità è solo sua?

“Gli errori sono molti di più e coinvolgono l’intero sistema”.

Serve una riforma?

“Bisogna pensare a una strategia che tenga conto della personalità di chi è più fragile, trovare dei percorsi, accogliere chi ha sbagliato. Il carcere così com’è strutturato non ha senso: chiunque capiti lì, nelle stesse condizioni di nostro figlio, ha tutte le probabilità di fare la fine di Alessandro”.

Che di fragilità ne aveva tante...

“L’abbiamo adottato che aveva otto anni e mezzo e alle spalle un inferno. Si è tuffato tra le nostre braccia, si era costruito una fantasia che lo portasse ad accettare il suo difficile passato”.

Poi?

“Durante l’adolescenza, quel dolore l’ha sopraffatto. Ha sviluppato una malattia psichiatrica, per sette anni è stato a letto temendo che le persone gli leggessero nel pensiero. Il suo mondo è esploso”.

La droga come palliativo?

“Ha cercato rifugio nelle sostanze. Nonostante tutto ha avuto la forza di studiare e lavorare. Ma ha trovato il crack, che è micidiale. Ha commesso due rapine ed è stato arrestato. In carcere avrebbe dovuto essere aiutato”.

È stato abbandonato?

“Chi ha problemi mentali ha bisogno di attenzioni particolari. Per lui, quei tredici giorni di detenzione sono stati un’eternità. Un incubo”.

Ha tentato il suicidio pochi giorni dopo l’arresto...

“Nessuno ci aveva avvisati, né noi, né l’avvocato. Sarebbe stato importante vederlo, rassicurarlo. Pensiamo spesso a ciò che gli avremmo detto”.

Cosa?

“Che di lì poteva guarire, uscire, attivare un circuito positivo per lui”.

Non è stato possibile vederlo?

“La prima data possibile era il 16 agosto. Alessandro si è suicidato il 15. L’abbiamo rivisto in una bara”.

Vi ha contattati la direzione del carcere?

“Mai. Solo il cappellano, l’unico che ha avuto parole sentite. Altri si sono giustificati”.

Come?

“Dicendo che Alessandro era stato attenzionato”.

Un termine che ora sembra spietato...

“Sono accadute cose sconcertanti”.

Il tentato suicidio non comunicato?

“Non solo. Nostro figlio ha tentato di ammazzarsi con un sacchetto di nylon. E cinque giorno dopo gli è stato consegnato un altro sacchetto con i vestiti. Questo va contro ogni logica”.

La psichiatra, per Alessandro, aveva disposto la sorveglianza “lieve”...

“Affrontare la depressione richiede mesi, come può un tentato suicidio essere affrontato in pochi giorni?”.

Vi costituirete parte civile?

“Insieme alle nostre legali, le avvocate Laura Spadaro e Maria Rosaria Scicchitano, seguiremo il processo. Vogliamo capire cos’è successo. Però è importante sottolineare che non cerchiamo vendetta”.

Cosa chiedete?

“Che il sistema venga riformato, con la volontà di avere un po’ più di umanità, così da ripartire nel verso giusto. Perché quello che è capitato ad Alessandro non si ripeta più”.

È stato abbandonato?

“Lasciato solo. Con i suoi demoni. Quando ti comunicano che tuo figlio è morto, è come l’esplosione di una bomba. E pensi solo a come riportarlo in vita”.