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di Simona Lorenzetti

Corriere della Sera, 5 dicembre 2022

La controversa vicenda di Luigi Di Lonardo, 47 anni. I familiari: “Lo Stato italiano non gli ha dato la possibilità di curarsi”. Quando venne trasferito dal carcere di Verbania a quello di Torino le sue condizioni di salute erano critiche. Stava male, ma al Lorusso e Cutugno decisero di trattenerlo in infermeria invece di accompagnarlo in ospedale. Il giorno dopo, alle 17, è morto: era il 13 febbraio 2017. Il detenuto si chiamava Luigi Di Lonardo, aveva 47 anni e per oltre cinque anni la sua vicenda è stata al centro di un controverso fascicolo giudiziario rimbalzato da Torino a Verbania e poi di nuovo a Torino, con reclami e istanze degli avvocati e consulenze tecniche dei medici. Pochi giorni fa è stato scritto quello che in apparenza è il capitolo finale di questa storia: il gip ha archiviato le accuse di omicidio colposo rivolte a 15 indagati. Ma ora i legali Chiara Luciani e Niccolò Bussolati, che assistono la famiglia della vittima, hanno deciso di fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 

La vicenda ha inizio nel 2014, quando Di Lonardo entra in carcere per scontare quattro anni e due mesi per reati contro il patrimonio. Ha gravi problemi di salute, non compatibili con la permanenza in cella: ha l’Hiv, una cirrosi epatica con grave deficit immunitario, un’endocardite aortica e nel 2012 era stato operato al cuore. Nell’agosto 2016 il Tribunale di Sorveglianza gli concede i domiciliari, due mesi dopo Di Lonardo finisce in coma. Poi la sua salute migliora e torna dai genitori. Il giorno di Natale rientra a casa con mezz’ora di ritardo: i carabinieri lo arrestano per evasione e lo riportano in carcere a Verbania. Presto il quadro clinico si aggrava: l’uomo viene portato in ospedale, poi di nuovo in cella. L’11 febbraio il trasferimento a Torino. E il giorno dopo Luigi Di Lonardo muore. 

In seguito all’esposto presentato dal fratello del 47enne, la Procura di Torino apre un’inchiesta. Nel 2018 il fascicolo viene inviato a Verbania, due anni dopo il pm chiede l’archiviazione. Nel frattempo, i legali ottengono che l’inchiesta venga avocata dalla Procura generale. Ripartono le indagini e 15 medici finiscono sotto accusa. La consulenza tecnica mette in luce che il personale sanitario avrebbe operato con “superficialità”, senza disporre “approfondimenti diagnostici”. Nonostante ciò, il pg chiede l’archiviazione perché “manca il nesso di causalità tra le condotte superficiali e colpose dei medici e la morte”. Gli avvocati depositano opposizione, ma il gip archivia senza fissare un’udienza. Segue un reclamo, il fascicolo passa a un nuovo gip ma l’epilogo non cambia: la morte dell’uomo viene archiviata. 

Adesso la famiglia ha deciso di rivolgersi ai giudici di Strasburgo. “La Procura ci dice che ci sono state colpe, che Di Lonardo non è stato curato mentre era in carcere, ma che “tanto, prima o poi, sarebbe morto lo stesso” perché l’intervento salvavita era rischioso. Peccato che lo Stato non gli abbia mai dato la possibilità di provare a curarsi, che gli abbia tolto la possibilità di lottare per la vita”: è l’amara considerazione di Luciani e Bussolati, che in questa battaglia sono sostenuti da Strali (associazione che nasce con il chiaro intento di contrasto all’ingiustizia giudiziaria). Sulla vicenda interviene anche il presidente della Camera Penale Roberto Capra: “Quando la decisione sulla morte di un uomo in carcere arriva a distanza di quasi sei anni, il sistema denuncia la sua inefficienza. Ancora una volta dobbiamo interrogarci sulla crisi profonda delle carceri italiane e sul fatto che non possa essere sempre e soltanto il carcere la risposta sanzionatoria”.