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di Marta Borghese

La Repubblica, 16 ottobre 2024

“Dietro le sbarre per trent’anni ho visto l’inferno in 38 carceri. All’uscita ho trovato il vuoto”. “Sa quanti ne ho visti di vecchietti con il catetere che non ce la fanno più, che ti chiedi che cosa ci facciano ancora lì. Curati e monitorati, c’è scritto nei referti. Curati e monitorati”. Scuote la testa V.D., sessant’anni o poco più, di cui 33 trascorsi nei penitenziari: “Quando sei in carcere - esordisce - devi solo pregare di stare bene di salute”. Lui ne ha cambiati 38: Poggioreale, Secondigliano, Genova, Foggia. Una sfilza infinita di sezioni speciali. “Un mattatoio” commenta di qualcuno. Il passato è nella camorra degli omicidi per strada. Il presente è tra i pacchi del banco alimentare: li smista e li consegna per l’associazione evangelica torinese “Brothers keeper ministry”, che dal febbraio 2020 si prende cura di lui. “Fuori dal carcere non c’è niente. Se non hai nessuno torni dentro in un attimo”.

Perché?

“Con una condanna così lunga perdi tutto. Io sono entrato che mia moglie era incinta della terza figlia: 21 aprile 1991. Sono uscito nel 2019, ho chiesto solo di vedere i miei nipoti”.

Com’è andata?

“Pochi giorni prima di uscire dal Lorusso e Cutugno di Torino, con 18 giorni di ritardo perché mancava un foglio dalla procura di Napoli, ho ricevuto un fax dalla mia famiglia. Mi chiedevano di tornare urgentemente a casa. Facevo comodo. Una notte alle 4 una persona mi dà appuntamento al bar, mi mette due pistole in mano e mi fa: “Ricominciamo”“.

Cos’ha fatto?

“Ho sentito una voce nel cervello, “Vattene!”, e me ne sono andato. Ho dormito per strada. Prima potevo comprarmi quello che volevo, Gucci, Versace. Mio papà mi diceva che i soldi a me “buttano calci”. Li ho sempre spesi, ma quando sono uscito non ne ho trovati più. Sono stati tre mesi d’inferno, senza farmaci, senza insulina. In carcere una volta mi sono messo a protestare per una persona che dormiva in strada morta di freddo. Ma come si può morire per una coperta? Alla fine il Signore ha mandato me, a fare il senzatetto”.

E poi?

“In strada incontro un amico, gli chiedo 20 euro. Ricarico e chiamo l’unico numero che ho, quello della donna che in carcere veniva a parlare con me: “Se non mi prendete voi sono finito”“.

E l’hanno presa?

“Mi ha fatto un biglietto per la mattina dopo. Ora vivo in una delle strutture dell’associazione Brothers keeper ministry. Mi sono salvato così”.

Cosa pensa del fine rieducativo della pena?

“Ma quale fine rieducativo? Ci sono posti in cui non ho mai visto un educatore. Io stavo alla sezione speciale, attività ce ne sono meno, ma è solo una mezza galera: sei solo in cella e c’è rispetto”.

E delle rivolte di quest’estate?

“Che il detenuto a volte non può avere le cose e le pretende. Che ci sono i poliziotti da buttare e i detenuti da buttare e che la massima ignoranza sta nelle patrie galere. Io sono stato sempre uno che protestava e per questo mi trasferivano. Però lo facevo per una cosa: i diritti. Una volta a Torino ho portato la garante a vedere le docce, piene di ruggine e verderame. Se la sono legata al dito: mi hanno fatto rapporto. “Lei vuole essere agevolato in tante cose...” mi hanno detto”.

Come spiega la presenza dei cellulari?

“Droga, telefoni, in carcere entra di tutto. Quando venivano i parenti con 100 grammi di prosciutto, però, dovevano essere impacchettati fetta per fetta, che si vedesse attraverso. A Benevento accompagnavano le donne in visita a cambiare l’assorbente per paura che portassero qualcosa”.

E allora?

“E allora con i soldi entra tutto”.

L’assistenza sanitaria funziona?

“A Sulmona mi fratturo un piede giocando a calcio. Non mi visita nessuno. Sto lì 10 giorni e questo piede diventa enorme, viola. Cammino con le mani al muro. Passa la direttrice - era Armida Miserere, che poi si è sparata in testa pure lei - si mette a urlare di portarmi all’ospedale. Alla fine il piede era rotto e mi è venuto un infarto, mi hanno messo 5 bypass. Penso che in carcere devi solo sperare di stare bene, ecco che penso”.

Cosa pensa delle carceri di oggi?

“Che bisogna buttarle a terra e ricostruirle come Dio comanda, con una doccia per cella. Che bisogna mettere le persone vicino a casa: ma sa quanta gente si è impiccata per la famiglia? Non tutti possono andare da Napoli in Valle D’Aosta a trovare un familiare, i detenuti costano e le famiglie si esauriscono”.

Ciò che le è pesato di più?

“Quando è morta mia madre. Arriva un fax, ti chiama l’ispettore, lo scopri così. Ho chiesto un permesso e non me l’hanno dato: non l’ho più vista e basta. E pensare che lei non mi ha mai fatto mancare nulla: aereo, treno, ogni settimana si metteva sui mezzi per venire da me, anche quando ero in Sardegna”.

La vita ora?

“Vado a prendere un caffè, vado dal barbiere, passeggio con la mia nuova famiglia. Cose che non ho mai potuto fare prima. Quando guardi Gomorra non lo dicono, ma il prezzo da pagare è sempre troppo alto”.

C’è pregiudizio fuori?

“Eccome se c’è. Intanto appena esci cominciano ad arrivarti tutte le spese processuali, è una botta, perché non le potrai mai pagare. Io ho l’80 per cento di invalidità e ho fatto richiesta per una pensione da 287 euro al mese. Serviva un foglio: 400 euro. Poi non andava bene. Passano i mesi e nessuno risponde, chiedo in un ufficio e un’impiegata mi fa: “È per questo - mostrandomi l’interdizione dai pubblici uffici - che questa pensione non la vedrà mai”. Ma è un mio diritto, tornerò a fare richiesta”.

Cosa le è rimasto della vita di prima?

“Mangio velocissimo. Ero arrivato a 3 secondi per un piatto di pasta. Di più non potevo, la mia non era una vita normale”.