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di Marina Lomunno

vocetempo.it, 26 gennaio 2024

Perché loro e non io?”; “Perché loro sono dentro e io fuori?”; “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”; “Bisogna vedere, bisogna starci in carcere, per rendersene conto”. Quattro citazioni (Papa Francesco, la marchesa Giulia di Barolo, Gesù - Matteo 25,36, Pietro Calamandrei, giurista e parlamentare che nel 1948 visitando le galere della Penisola ne denunciò la situazione drammatica) hanno fatto da filo conduttore, venerdì scorso, all’incontro inaugurale del ciclo di sei incontri sul Sistema carcerario promossi, nel 160° della morte della Marchesa Giulia, dall’Opera Barolo, nel Palazzo di via delle Orfane a Torino, in collaborazione con “La Voce e Il Tempo”.

La grande affluenza di pubblico - oltre 200 persone, numerosi i rappresentanti istituzionali tra cui Edoardo Barelli, presidente della Corte d’Appello di Torino e Maria Grazia Grippo, presidente del Consiglio comunale - come ha evidenziato l’Arcivescovo Repole, presidente dell’Opera Barolo, “è un bel segno di attenzione della città e della comunità cristiana all’umanità sofferente e spesso dimenticata che sconta la propria pena nei penitenziari cittadini”.

Torino ha una tradizione di attenzione alle persone fragili che cadono nelle maglie dell’illegalità perché spesso “nati nella culla sbagliata”, è la città dei santi sociali che si sono spesi per il riscatto dei reclusi. Don Bosco inventò il suo sistema preventivo visitando i ragazzi “discoli e pericolanti” alla “Generala “ (oggi il carcere minorile “Ferrante Aporti”); san Giuseppe Cafasso, confessore dei condannati a morte, è patrono dei carcerati; la marchesa di Barolo nel 1821 presentò al Governo una relazione sulla disumana situazione delle carceri cittadine contribuendo con proposte concrete alla realizzazione della prima vera riforma carceraria e fondò una “casa di accoglienza” per le donne uscite dal carcere in una società che ha molte similitudini con la nostra dove i pregiudizi nei confronti dei carcerati, considerati “scarti”, sono ancora molto forti.

A partire dalla presentazione del libro “E-mail ad una professoressa - Come la scuola può combattere le mafie” (ed. Effatà) che, richiamando l’opera di don Lorenzo Milani, mette al centro l’importanza dello studio per contrastare l’illegalità, gli interventi dei relatori moderati da Marco Bonatti hanno rimarcato come le “parole, la cultura nei percorsi di rieducazione dei ristretti siano centrali per abbassare la recidiva e per dare un ‘futuro pulito’ dopo la pena”.

Secondo Margherita Oggero, scrittrice, a lungo insegnante negli istituti torinesi, anche se la scuola è fondamento per crescere buoni cittadini “da sola non ce la può fare senza una classe politica che metta al centro comportamenti che contrastino tutte le forme di illegalità”. Emma Avezzù, procuratore dei Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, Elena Lombardi Vallauri, direttore del carcere delle Vallette “Lorusso e Cutugno” e Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, hanno fotografato luci e molte ombre della condizione carceraria torinese tra sovraffollamento, strutture fatiscenti, emergenza sanitaria, carenza di personale e mancanza di opportunità di lavoro per chi torna in libertà.

Arturo Soprano, presidente emerito della Corte d’Appello di Torino e membro del Consiglio di amministrazione dell’Opera Barolo, ha concluso con una puntuale analisi sui “mali” della situazione dei penitenziari italiani richiamando la necessità di educare le nuove generazioni alla legalità con le parole di Paolo Borsellino: “La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Il ciclo di incontri a Palazzo Barolo si concluderà a dicembre: prossimo appuntamento venerdì 15 marzo alle 17 su: “Art. 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.