di Massimo Massenzio
Corriere Torino, 16 marzo 2023
Università e Garante hanno verificato la loro condizione. C’è chi ha chiesto corsi di formazione, i tempi sono lunghi Reclusi al Lorusso e Cutugno, hanno tra 18 e 25 anni. Solo il 21% pensa al diploma. Il reinserimento nella società sembra un miraggio: i ragazzi in carcere hanno lo stesso trattamento di un delinquente abituale e tra il 69% di persone che tornano a commettere reati ci sono anche gli under 25.
Giovani dentro e fuori. È il titolo della ricerca sulla popo- lazione giovanile all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino condotta dall’ufficio del Garante delle persone private della libertà e della “Clinica legale” dell’università. Ma è anche la contrapposizione che vivono quasi 200 ragazzi detenuti, resa ancora più stridente dalle criticità che affliggono una struttura che appare sempre più inadeguata. Il carcere rispecchia i fenomeni sociali, ma spesso li anticipa e per questo i dati del questionario anonimo suonano come un allarme. E permettono di avviare prevenzione e sostegno. La ricerca si è concentrata sui detenuti fra i 18 e i 25 anni che, a Torino, sono molti di più rispetto agli altri istituti.
Giovani dentro e fuori. È il titolo della ricerca sulla popolazione giovanile all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino condotta dall’ufficio del garante delle persone private della libertà e della “Clinica legale” dell’università. Ma è anche la contrapposizione quotidiana che vivono quasi 200 ragazzi detenuti, resa ancora più stridente dalle criticità che affliggono una struttura che appare sempre più inadeguata. Il carcere rispecchia i fenomeni sociali, ma spesso li anticipa e per questo i dati raccolti attraverso un questionario anonimo devono suonare come un campanello d’allarme. E permettere di avviare subito un’attività di prevenzione e di sostegno, nelle periferie e anche in centro.
La ricerca si è concentrata sui “giovani adulti”, detenuti fra i 18 e i 25 anni che, a Torino, sono molti di più rispetto agli altri istituti. Quasi la metà dei ragazzi (45,63%) ha un’età compresa tra i 24 e i 25 anni e il 74,5% sono stranieri. Spesso entrati in Italia come minori non accompagnati, senza permesso di soggiorno (74,5 %) e il 43,14% proviene da Barriera di Milano.
“Il caso che più ci ha colpito è stato quello di un ragazzo che non vedeva l’ora di parlare con qualcuno - raccontano gli studenti coinvolti nella ricerca -. Ci ha detto di aver spedito la domandina per i corsi di formazione diverse volte senza risultati, fino a perdere la speranza. Tutto all’interno del carcere è lento e macchinoso”. Il 44% degli intervistati sostiene infatti di non essere inserito in nessun tipo di percorso, solo il 21% ha avviato o proseguito gli studi e il 45% dichiara di non svolgere colloqui con operatori penitenziari. La vita nell’istituto torinese è difficile anche perché le sezioni detentive riservate ai giovani sono praticamente inesistenti e il 44,7% dei ragazzi detenuti condivide la cella con ultratrentenni.
“Le attenzioni verso questi giovani ci sembrano scarse - ribadisce la garante delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo -. Manca soprattutto personale formato e gli educatori di strada potrebbero essere un supporto importante. Il giovane detenuto è un ragazzo apparentemente forte quando è in gruppo, ma fragile quando si trova da solo. La detenzione potrebbe quindi essere un’occasione per intraprendere un percorso trattamentale, ma viene sprecata”. Il reinserimento nella società sembra un miraggio: “Il carcere attuale non assolve alla funzione di recupero, i ragazzi hanno lo stesso trattamento di un delinquente abituale. Fra il 69% di persone che tornano a commettere reati ci sono anche gli under 25. La detenzione non è una risposta efficace per le baby gang: il nostro sistema prevede soluzioni alternative, favorisce l’incontro con la vittima, strumenti che permettono di ricomporre le fratture sociali”
Raccontare il “dentro” è lo scopo della ricerca, intervenire sul “fuori” è l’obiettivo delle istituzioni. Anche perché, come ammette Cosima Buccoliero, direttrice del Lorusso e Cutugno, “senza strumenti sufficienti, paralizzato dall’emergenza quotidiana, il carcere può solo provare a ripartire dal suo mandato, mettendo al centro la persona”.