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di Fulvio Fulvi

Avvenire, 5 gennaio 2024

Sul numero di telefonate che i detenuti possono fare ai parenti, carcere che vai, regole che trovi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio lo aveva promesso alla vigilia di Ferragosto dopo la sua visita alle Vallette di Torino in seguito alla morte di due giovani recluse, una per suicidio, l’altra, madre di due bambini, per inedia dovuta a disperazione: “Due chiamate in più al mese per tutti”.

Lo scopo è quello di far sentire meno soli i ristretti, alleviarne le sofferenze e salvare vite spesso sull’orlo del baratro. Sarebbero stati venti minuti di conversazione in aggiunta ai quaranta già consentiti dall’ordinamento penitenziario.

“Lo Stato non abbandona nessuno” aveva puntualizzato Nordio. Ma finora, quattro mesi dopo l’annuncio (condiviso con il nuovo capo del Dap, Giovanni Russo), il Consiglio dei ministri non ha ancora varato il provvedimento e nel frattempo ogni decisione in merito è lasciata alla sensibilità e alla consapevolezza dei direttori degli istituti di pena che valutano caso per caso usando criteri di ragionevolezza. Regole diverse da struttura a struttura, quindi, e comprensibile disappunto dei soggetti interessati.

“Alla Casa circondariale Lorusso-Cotugno (la stessa visitata da Nordio il 13 agosto scorso e una delle strutture più critiche, ndr) dal 1° gennaio sono state ridotte le nostre chiamate ai familiari: da 6 a 4 al mese, come era prima del Covid” denuncia in una lettera ad Avvenire un recluso padre di sei figli che si firma “Spartaco”: “Ma, fermo restando che noi siamo ristretti nella libertà - prosegue - ciò non significa che le famiglie debbano pagare da innocenti la nostra detenzione: come pensate che io possa curare i rapporti con tutti i miei figli avendo a disposizione soltanto una telefonata di 10 minuti alla settimana? Con quale criterio dovrei decidere di parlare con l’uno o con l’altro dei miei cari?”.

E quello di “Spartaco” non è certo il solo caso esistente tra i circa 60mila detenuti delle carceri italiane, il 30% dei quali stranieri e per la maggior parte con parenti lontani. “Il danno l’ho fatto e lo sto pagando - spiega il carcerato delle Vallette - darmi la possibilità di educare i figli a non commettere errori e al rispetto delle regole mi sembra il minimo che possa fare: ma con quali strumenti se è così limitata la comunicazione con loro?”.

Un’osservazione che dovrebbe far riflettere chi decide. Telefonare a un parente, da un numero controllato, allontana la possibilità per i detenuti di farsi del male e li tranquillizza: sono stati 68 i suicidi in carcere nel 2023 (l’ultimo di un 31enne ad Avellino, la vigilia di Natale) e non si contano più gli episodi di autolesionismo, le aggressioni e le risse dietro le sbarre, che vedono come vittime quasi sempre gli agenti penitenziari.

Parlare al telefono (perché non tutti possono partecipare con continuità ai colloqui in presenza), può rafforzare o contribuire a ricucire legami spesso precari o lacerati, sollecita la responsabilità del singolo a essere genitore, nonno, figlio: è, insomma, una possibilità per rimettersi in gioco quando, scontata la condanna, si tornerà a vivere nella società civile.

“Si provi a considerare due cose in merito al mantenimento di relazioni familiari: la prima riguarda la pericolosità sociale dello “sfasciarsi” di una famiglia - afferma “Spartaco” - così come di una coppia, ovvero le problematiche che sorgerebbero alla fine della pena quando il rientro a casa è aggravato da dissidi, divorzi e separazioni; la seconda situazione è quella di mantenere queste relazioni il più sane e forti possibili anche nella sofferenza, con una speranza cristiana e la possibilità di curare gli affetti, che come un giardino hanno bisogno di amore e attenzioni particolari, specifiche e semplici per essere mantenute”.

Nonostante l’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena, su questo fronte l’Italia è in posizione di retroguardia tra i Paesi europei. Eppure tra le regole stabilite dall’Unione c’è quella (alla quinta premessa) che afferma che “la vita all’interno del carcere deve essere più simile possibile a quella all’esterno di esso”. Ma, a quanto pare, non è sempre così.