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di Elisa Sola

La Repubblica, 26 marzo 2024

Edmundo Nunez era stato accoltellato dal figlio: “Era una persona buona, quando stava per avere una crisi mi avvisava. In sei anni ha fatto 5-6 visite psichiatriche ma nessuno lo ha mai preso in carico”. “Mi sento impotente. Milioni di volte mi sono chiesto come fosse possibile che con una cartella clinica del genere, mio figlio stesse in prigione. Mi hanno insegnato da bambino che la giustizia è una bilancia. Dovrebbe essere uguale per tutti, ma invece non è così. Per mio figlio non è andata così. Se non c’era posto in Rems, dovevano metterlo in una casa di cura. Non farlo morire”.

Non si dà pace Edmundo Nunez, 63 anni, dopo avere saputo che il figlio Fabrizio Alvaro Nunez Sanchez, arrestato per tentato omicidio nei suoi confronti alla fine di agosto, si è ucciso in carcere. “Lo avevo sentito proprio domenica. Mi rassicurava, diceva che andava tutto bene. Ha chiesto di me, della mamma e dei fratelli. Non riesco a crederci. Piango, ma sono anche arrabbiato. Non dovevano tenerlo lì. Come si fa a lasciare in una cella una persona malata?”.

Edmundo Nunez conviveva con il figlio dal 2018. Non aveva paura di lui. “Ci volevamo molto bene. Non temevo nulla. Lui era gentile, dolce, studioso. Se sentiva che stava per venirgli una crisi, mi avvisava. Diceva papi, non sto bene. E allora gli facevamo una puntura. Lo abbiamo sempre seguito. Abbiamo dato tutti i documenti della Asl al tribunale. Come mai era in galera? Come hanno potuto metterlo dentro fin dall’inizio?”. Il fatto che indigna, e fa più male, al padre dell’ennesimo detenuto suicida del nostro Paese, è che nessuno, nel sistema di chi amministra la giustizia, avrebbe imparato “la lezione”. E per Edmundo, “la lezione” è un concetto semplice. Significa imparare dagli errori passati. “Fabrizio è sempre stato un bravo figlio. Lo hanno ammanettato nel 2018 perché un giorno ha dato uno spintone alla madre. E già allora avrebbero dovuto capire che il carcere non era la soluzione. All’epoca ho pensato, gli farà bene, magari è come una punizione. Ma credevo durasse un mese. Invece lo hanno tenuto dentro un anno. Quando è uscito era peggio di prima”.

Il Covid ha quasi bloccato del tutto il percorso di cura di Fabrizio, di cui il padre non è mai comunque stato soddisfatto. “Sono andato, di persona, decine di volte alla Asl in via San Secondo. Chiedevo aiuto. Tra il 2016 e il 2022 mio figlio ha fatto cinque o sei visite psichiatriche. Non sono poche? Speravo che se lo prendessero a carico, affiancandogli qualcuno, più spesso, per più volte. Anche perché da quando si era buttato giù dal balcone era peggiorato molto. Era anche finito in un reparto psichiatrico. Ma era scappato dall’ospedale. Per lui era adatta la casa di cura, perché aveva bisogno di essere sorvegliato. Se invece di metterlo di nuovo in carcere, dopo che mi ha dato quelle coltellate, lo avessero trasferito in una casa di cura, sono sicuro che sarebbe stato meglio. Mio figlio aveva voglia di guarire. E magari un giorno avrebbe potuto continuare a vivere con me, a casa mia. Io gli volevo un sacco di bene. E lui a me”.