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di Marina Lomunno

Avvenire, 15 giugno 2022

Per due anni a causa della pandemia è stato adibito ad hub vaccinale, ad aula per ospitare la Dad dei detenuti studenti, a luogo di culto per la Messa pasquale con cui con l’arcivescovo emerito Cesare Nosiglia ha desiderato salutare i ristretti al temine del suo mandato alla guida dell’arcidiocesi di Torino, a sala di preghiera per i reclusi musulmani.

Finalmente dal 6 al 9 giugno il grande teatro della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, uno dei penitenziari con 1.400 ristretti tra i più affollati della Penisola, grazie all’allentarsi dell’emergenza Covid, è ritornato alla sua funzione ospitando uno spettacolo messo in scena dai detenuti ed aperto al pubblico: in quattro serate sono accorsi ben 450 torinesi proseguendo, come è nella tradizione del penitenziario subalpino - riconfermata e rafforzata dalla nuova direttrice Cosima Buccoliero - a considerare il teatro in carcere come punto d’incontro e dialogo “perché il carcere è un pezzo di città”.

E così con “Trolley”, come spiega il regista Claudio Montagna anima della “Compagnia Teatro e Società” che da 30 anni opera nelle carceri italiane “siamo risaliti sul palco con l’emozione di ritornare liberi dopo un periodo di prigionia come è stata la pandemia per noi “di fuori” ma ancora di più per chi è “dentro”. Per questo l’attesa di queste sere preparata da tempo è stata forte per i trenta detenuti attori alcuni stranieri, per gli agenti molto collaborativi, gli educatori e la direzione. Un grazie speciale alla Compagnia di San Paolo che contribuisce alla realizzazione delle nostre attività”.

“Trolley” è la storia di un gruppo di amici che si mettono in viaggio alla ricerca del senso della vita ma vengono sorpresi dalla pioggia torrenziale: che fare? Fermarsi e farsi travolgere dal diluvio o tirare fuori dal bagaglio a mano di ciascuno - “cioè che non va dentro di sé” - e provare con i compagni a superare i marosi e intravedere la speranza all’orizzonte?

E con questa forza che il gruppo, prendendosi per mano, raggiungere “la terra promessa” - cioè se stessi - per ricostruirsi accorciando le distanze con il mondo. “Ecco il carcere che vorremmo - ha detto commossa al termine dell’ultima serata Rita Monica Russo, provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta: un carcere che funziona non ha le celle chiuse”. Anche uno degli attori ha ringraziato a nome dei compagni la presenza “del pubblico dei liberi, tra cui alcuni parenti e figli dei reclusi perché ci fate sentire meno diversi”.

E, scendendo dal palco per tornare in cella, vedendo su una sedia il quotidiano Avvenire che ogni giorno entra in omaggio con un pacco di copie per le sezioni ci dice: “Sarebbe bello che sui giornali e in televisione - come fa Avvenire - si scrivesse che in carcere non ci sono solo delinquenti incalliti, abusi, mala gestione ma che c’è posto per la bellezza come abbiamo vissuto questa sera: tanti di noi vogliono lasciarsi alle spalle il passato e ricominciare ma abbiamo bisogno che il tempo vissuto qui dentro ci dia stimoli, opportunità di studio per imparare un mestiere, fiducia per ripensare alla nostra vita: il teatro ci aiuta a tirare fuori ciò che non pensavamo ci fosse dentro di noi e non tutto è da buttare”.