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di Irene Famà

La Stampa, 12 agosto 2023

La denuncia di Monica Gallo: “Per le detenute donne meno servizi che per gli uomini. Non c’è un vero presidio medico, tutto ciò che riguarda l’assistenza è residuale”. Centodieci detenute su ottanta posti. Quattro dell’articolazione tutela salute mentale, ovvero le donne più fragili psicologicamente e con problemi comportamentali. Da monitorare in maniera costante. Ecco la sezione femminile del carcere di Torino. Ieri, due donne si sono tolte la vita. Susan John, 43 anni, di origine nigeriana, si è lasciata morire di fame e di sete. Azzurra Campari, 28 anni, trasferita da Genova, dal penitenziario di Ponte Decimo, si è impiccata.

“Queste due tragedie sono il segnale evidente che occorrono interventi mirati e urgenti perché la situazione è disperata”, interviene Gianna Pentenero, l’assessora ai rapporti con il sistema carcerario della Città. Le storie di queste due donne, diverse tra loro, certo, “ma accomunate dalla disperazione, impongono che le carenze di operatori e di adeguati supporti sanitari a sostegno delle fragilità vengano risolti il prima possibile”.

Quello di Torino è un carcere per uomini. Lo sottolinea bene Monica Gallo, garante comunale per i diritti dei detenuti. “Tutto ciò che riguarda l’attenzione e l’assistenza alle donne è residuale”. È questione di numeri: gli uomini sono di più, oltre 1.400, e tutto è proporzionale. Le proposte, l’assistenza. Compresa l’area di tutela della salute mentale. “Sono semplicemente quattro celle ad osservazione gestite con telecamere di videosorveglianza dalla polizia penitenziaria - spiega Monica Gallo - Non è un presidio medico. Ci sono soltanto passaggi sporadici dello psichiatra”.

Mancano i medici, i mediatori per i colloqui. Lo denunciano le associazioni, i sindacati di polizia, la politica. Solo l’altro giorno il sindacato Osapp aveva scritto una lettera alle istituzioni. “Arrivano continue disposizioni di sorveglianza a vista dei detenuti e delle detenute per motivi sanitari - era scritto - Gli agenti della polizia penitenziaria non possono fare da bodyguard h24. La sorveglianza sanitaria è e dev’essere affidata alle figure professionali dell’Asl competente”.

Due suicidi che interrogano tutti. “Chi doveva occuparsi di Susan John e non l’ha fatto?”, si chiede l’onorevole Daniela Ruffino. “Era stata trasferita nel settore riservato ai detenuti con problemi psichiatrici. A maggior ragione ricorrevano le circostanze per una tempestiva richiesta di ricovero da parte di chi ne ha il potere”. Aspetti, questi, al vaglio degli inquirenti. Lunedì verrà disposta l’autopsia e la procura ha aperto un fascicolo. Al momento senza indagati né ipotesi di reato.

Susan John era in cella dal 21 luglio dopo un lungo periodo agli arresti domiciliari: difesa dagli avvocati Manuel e Wilmer Perga, doveva scontare una condanna, con fine pena nel 2030, per reati di tratta e immigrazione clandestina. Ha rifiutato per diciotto giorni il cibo, l’acqua, le medicine, tutto. “Sapeva che l’avrebbero arrestata - diceva ieri il compagno di Susan agli amici che l’hanno accompagnato allo studio legale - In cella non voleva finirci. Quando l’hanno portata via diceva che voleva tornare a casa sua, in Nigeria”.