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di Francesca Angeleri

Corriere di Torino, 12 ottobre 2023

Kasia Smutniak ha recitato in “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario, girato 14 anni fa all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino coinvolgendo il personale e i detenuti di un’intera sezione dell’istituto. La pellicola è inserita nel programma di Liberazioni Festival che è giunto alla sua quarta edizione e che continua fino a domenica in vari luoghi tra cui lo stesso carcere, domani, con Vera Gemma.

Forse il peso delle cose lo misuriamo nella memoria. Da come certi momenti ci rimangono appiccicati addosso. Diventano dna. Così è l’infanzia. Ma così sono anche certe esperienze professionali intense, uniche. Tutti i set un po’ lo sono. Altri di più. Certamente lo è stato quello di “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario, girato 14 anni fa all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino coinvolgendo il personale e i detenuti di un’intera sezione dell’istituto. La pellicola è inserita nel programma di Liberazioni Festival che è giunto alla sua quarta edizione e che continua fino a domenica in vari luoghi tra cui lo stesso carcere, domani, con Vera Gemma.

Il film fu un “colpo di genio” di Ferrario che mise in piedi una sorta di musical con la colonna sonora dei Marlene Kuntz dove un giovane regista, su richiesta del cappellano della prigione, doveva mettere in scena la Passione di Cristo con i detenuti. Nessuno di loro, però, voleva essere Giuda. Protagonisti erano Fabio Troiano e Kasia Smutniak che ci ha parlato da Roma dove tra pochi giorni presenterà il suo primo lavoro da regista alla Festa del Cinema, il documentario Mur che narra della crisi, creatasi nel 2021, al confine tra Polonia e Bielorussia. “Ho dei ricordi molto vividi - racconta Smutniak - di quella prima volta che varcai la soglia del carcere. Del togliersi gli effetti personali, dare i documenti. Era un distacco totale dal mondo esterno. Un’immersione vera. Sapevamo, fin dall’inizio, che avremmo portato lì dentro dei sogni. E sapevamo anche che ce ne saremmo poi andati via”. È una memoria dolce quella che riporta. Fatta di un tempo che non sarebbe mai potuto ritornare, ma un tempo prezioso, irripetibile: “Ricordo che c’era un bar, subito fuori dal carcere. Servivano la birra artigianale e lo gestiva un ex carcerato. Ci ho pensato spesso a quel posto in questi anni. Perché era un luogo sospeso, una sorta di limbo tra il mondo dentro le sbarre e quello fuori. Un purgatorio. Quando finivamo di girare, quasi nessuno di noi aveva l’urgenza di riprendere il telefonino dalla cassetta di sicurezza e di accenderlo. Avevamo bisogno di passare del tempo in quel bar. Di ritornare alla nostra vita in un modo che fosse morbido e anche paziengiovani: te”. Di quel tempo lento è intrisa la nostra conversazione, perché Kasia dice che quel film l’ha cambiata, “io sono un’impulsiva, una che si butta, che pensa poco e fa molto. Davide non è così, è molto introspettivo. Mi ha insegnato a rallentare. In qualche modo oggi provo a farlo”. Sul set era l’unica donna, ma non si è mai sentita in difficoltà per questo, nonostante si trattasse di un carcere maschile, “sono cresciuta in caserma, in mezzo ai maschi. Ero la figlia del generale. Imbarazzi non ne ho mai avuti. La cosa più difficile per me era ballare, quello sì mi ha mandato in crisi. Passare delle settimane in un carcere a girare un film non fa di te un’esperta della vita. Però io sicuramente lì dentro acquisii un punto di vista molto forte sulle cose: il privilegio della libertà. E della fortuna, che alcuni hanno e altri no, nella vita. A partire da dove nasci e in quale famiglia. Sono questi due elementi che cambiano tutto. Oggi, più che mai, è sotto i nostri occhi”. Alle “Vallette” ci mise piede l’ultima volta parecchi mesi dopo aver finito la lavorazione del film, per la conferenza stampa. Però ci sono persone che sono rimaste nella sua orbita, “uno di loro. Quello che diceva che una volta uscito non sarebbe mai più rientrato. È stato così. E oggi è una delle persone di cui più mi fido al mondo”.