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di Marina Lomunno

Avvenire, 20 dicembre 2023

Visita alla Casa circondariale Lorusso e Cutugno: “Mi state a cuore, ho grande fiducia in voi”: l’arcivescovo ha incontrato un gruppo di giovani carcerati. “La maggior parte delle persone credono che la galera sia il baratro della propria vita e che in un modo o nell’altro ci si ritorni ma è realmente così? Perché non vederla da un punto di vista più positivo? Giustamente vi domandate cosa ci sia di positivo nello stare chiusi in tre metri quadri di cella ma io lo so! Sono quasi due anni che mi trovo qui e mi sono reso conto di tre cose fondamentali: la prima è la mia crescita mentale e sui miei principi, la seconda la mia capacità innata di sognare. Sì, sogno, sogno cosa diventerò quando uscirò come quando chiedi ad un bambino cosa vuole fare da grande. E la terza sono i valori che davo per scontati ma che ora conosco in ogni sfaccettatura e importanza. Quindi ecco, mi trovo qui. Per ritrovare me stesso”.

Sono parole di O., 19 anni, ristretto presso la casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino: a nome di altri “fratelli detenuti” ha scritto una lettera di benvenuto all’arcivescovo Roberto Repole che ieri, dopo la Messa di Natale nella cappella del penitenziario, ha voluto dialogare con un gruppo di giovani reclusi. A novembre Repole aveva scritto una lettera a tutti i giovani della diocesi per invitarli a sei incontri in Cattedrale per “Vedere la Parola”: due catechesi a cui hanno partecipato un migliaio di ragazzi e ragazze si sono già svolte in un clima di “dialogo per riflettere su come il Signore ci vuole bene, su cosa vale la pena vivere”.

E poiché i giovani reclusi non possono andare in Cattedrale ma le carceri cittadine - quella degli adulti e l’istituto minorile - “sono considerate come parrocchie dalla comunità diocesana che è presente con i cappellani, la Caritas, i catechisti e molti volontari”, l’arcivescovo ha voluto incontrare i giovani “dentro” come incontra quelli “fuori” per avviare un dialogo, ascoltare le loro difficoltà e solitudini e “dirvi che mi state a cuore e che ho una grande fiducia in voi”. L’incontro, presente anche la garante dei detenuti Monica Cristina Gallo, si è tenuto nel laboratorio di falegnameria gestito all’interno del carcere dall’Its “Plana” in collaborazione con l’Area Trattamentale e gli insegnanti dell’istituto. Hanno chiesto di partecipare 35 giovani allievi del Plana, la maggior parte stranieri e alcuni che frequentano il Cpia (Centri provinciali istruzione per adulti).

Alcuni detenuti hanno spiegato al presule come sia importante frequentare la scuola in carcere per poter sperare in un futuro lavorativo dopo la pena o, come ha evidenziato J., come “dentro” le differenze di provenienza (Marocco, Tunisia, Senegal, America Latina) scompaiono “perché la solidarietà fra detenuti ci fa sentire tutti fratelli al di là delle nostre origini: qui siamo come una grande famiglia, fuori spesso non è così, ci sentiamo emarginati”. Un giovane papà di un bimbo di tre anni ha confidato a Repole come sia straziante “non vedere mio figlio” e che quando un congiunto è in prigione tutta la famiglia è detenuta “e soffre più di noi”.

Sconforto, disagi per mancanza di personale, sovraffollamento dell’istituto (1.440 ristretti per una capienza di 800 persone) e una presenza molto alta di giovani in una società che invecchia rendono la quotidianità dietro le sbarre gravosa: elementi che devono far riflettere chi ha responsabilità politiche e gestionali su come mettere in campo azioni educative per dare prospettive di futuro ai detenuti, ha riflettuto l’arcivescovo.

Ma riprendendo le parole di speranza della lettera di O. con cui è iniziato l’incontro e richiamando l’omelia pronunciata a Messa, Repole ha esortato i giovani a cogliere, “fra tante cose che qui dentro non vanno i segni di speranza e di gratuità che ci fanno del bene come la solidarietà tra voi compagni, i volontari, gli operatori che ogni giorno cercano di rendere meno gravosa la detenzione, gli insegnanti, gli agenti: anche dal buio può nascere qualcosa di nuovo, non siete soli, ognuno di noi è unico e amato da Dio”.

L’arcivescovo congedandosi ha chiesto ai presenti, nonostante i giovani cattolici siano una minoranza, se fa loro piacere la benedizione di Dio. Tutti si sono alzati e l’hanno ricevuta chinando il capo. Ed è scoppiato un applauso: “ti aspettiamo ancora monsignor Roberto”.