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di Roberto Gramola

La Voce e il Tempo, 23 febbraio 2024

Il “penitenziario industriale-agricolo detto della Generala” era un istituto correzionale per minori nato in seguito alla riforma carceraria del 1839, voluta da re Carlo Alberto. Il provvedimento prevedeva la detenzione dei minorenni “discoli e pericolanti” (come li chiamava don Bosco che, proprio durante le sue visite ai ragazzi ristretti alla Generala, inventò il suo “sistema preventivo” e gli oratori) in sezioni separate delle carceri o, di preferenza, in appositi istituti, per evitarne il contatto - fortemente diseducativo - con gli adulti.

L’opera, nel suo genere un modello per quei tempi, nel 1845 venne gestita dalla società religiosa San Pietro in Vincoli e, a partire dal 1848, direttamente dallo Stato. Nel 1935 il carcere minorile fu intitolato al sacerdote ed educatore Ferrante Aporti (1791-1858). Con la riforma del 1988 e la successiva modifica del 1989, in Italia possono essere detenuti presso carceri minorili esclusivamente ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 ed i 18 anni. Se incarcerati un giorno prima del 18° compleanno, restano nel carcere minorile sino a 25 anni.

Della storia del “Ferrante” si è parlato mercoledì 14 febbraio al Circolo dei Lettori di Torino durante un incontro sul tema: “I 5 punti del Ferrante Aporti il nostro carcere minorile contemporaneo” che, come ha ricordato Ylenia Serra, garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Piemonte, era il terzo e ultimo appuntamento di un ciclo sulla giustizia minorile. Il primo era stato dedicato alla storia e alla evoluzione del diritto minorile partendo dal progressivo aumento dei detenuti effettivamente minorenni - attualmente i due terzi - nel confronto con i reclusi dai 18 ai 25 anni.

Nel secondo incontro sono intervenuti vari esperti tra cui Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino che ha proposto che i genitori detenuti vengano visitati dai figli minorenni come avviene nel carcere torinese “Lorusso e Cutugno”. Anche i genitori entrano nelle carceri minorili per incontrare i figli e, dato il grande numero di minori non accompagnati soprattutto stranieri, la garante ha sollecitato le istituzioni a creare percorsi che accompagnino i minori che hanno i famigliari lontani. Sono poi stati proiettati alcuni cortometraggi curati da associazioni che promuovono incontri tra gruppi di studenti e i ristretti al “Ferrante”.

Tra questi “I cinque punti” che racconta il dolore di una madre che si prepara ad incontrare il figlio nel carcere minorile per il primo colloquio. Il sociologo Franco Prina, delegato del Rettore del Polo universitario per i detenuti, ha ricordato un fondamento per superare l’emergenza penitenziaria: “Se il carcere è nella città, la città deve essere nel carcere”.

Occorre ascoltare i ragazzi e capirne il linguaggio in particolare quando entrano “dentro” e considerare il ruolo delle famiglie che hanno lasciato “fuori “. Bisogna far fronte alla carenza di operatori, investire su professionalità come i mediatori culturali, curare la formazione e conquistare la fiducia dei ragazzi. E poi rafforzare le politiche e i servizi di prevenzione in città in un momento in cui la tensione sociale è molto alta soprattutto nelle periferie, contrastando e denunciando le diverse forme di sfruttamento dei minorenni. Il carcere non deve essere una “discarica sociale” occorre prevenzione. La lezione di don Bosco è dunque ancora attuale in un momento in cui, come denuncia l’ultimo rapporto di Antigone, gli ingressi nei penitenziari minorili sono in preoccupante aumento.