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di Irene Famà e Ludovica Lopetti

La Stampa, 24 febbraio 2024

Perquisizione negli uffici del Lorusso e Cutugno e delle Molinette, il faro degli inquirenti sul mancato ricovero della detenuta. Susan John voleva tornare in Nigeria. Riabbracciare il marito e il bimbo di quattro anni. Ma lì, dietro le sbarre, non le ha dato forza nemmeno il pensiero di potersi, un domani, riunire alla sua famiglia. Si è lasciata andare. Giorno per giorno. Rifiutando cibo e acqua. È morta in cella l’11 agosto 2023, dopo tre settimane di digiuno. Per quella vicenda, la procura ha indagato due medici del carcere Lorusso e Cutugno per omicidio colposo. Non avrebbero prestato attenzione adeguata alle condizioni della donna. Insomma: omissioni e negligenze.

Un professionista, difeso dall’avvocato Francesco Bosco, non avrebbe disposto il ricovero d’urgenza programmato nel repartino delle Molinette e autorizzato il 9 agosto dal tribunale di sorveglianza. L’altro, “senza giustificato motivo”, lo avrebbe ritardato. “Il mio assistito - commenta il penalista Gian Maria Nicastro - in quei giorni non era al lavoro. Quindi non avrebbe potuto avviare le procedure per il ricovero”. E aggiunge: “La detenuta era una settimana che rifiutava il ricovero d’urgenza e non si poteva imporlo”.

È sugli ultimi giorni di vita di Susan John, quarantatré anni, che si concentrano le indagini, coordinate dal pubblico ministero Mario Bendoni. Mercoledì gli inquirenti hanno effettuato perquisizioni negli uffici del carcere e dell’ospedale Molinette per acquisire documentazione e materiale informatico, computer e cellulari. E al vaglio della procura ci sono anche le comunicazioni tra i medici, il tribunale di sorveglianza e la direzione del Lorusso e Cutugno. Acquisito anche l’esito dell’autopsia: secondo l’esame, la donna è morta per insufficienza cardiaca acuta a seguito di un’aritmia maligna.

Arrivata in carcere il 22 luglio, dopo un lungo periodo trascorso ai domiciliari, Susan John doveva scontare una condanna di dieci anni e sei mesi inflitta da una corte di Catania per reati di tratta e immigrazione clandestina. Secondo i giudici, aveva costretto giovani donne nigeriane alla prostituzione. “Sapeva che l’avrebbero arrestata, gli avvocati ci avevano spiegato tutto l’iter. Ma in cella non voleva finirci. E non riusciva a darsene pace”. Lo raccontava il compagno il giorno dopo la sua morte. E agli amici confidava: “Quando l’hanno portata via diceva che voleva tornare a casa sua, in Nigeria. Sarebbe tornata libera nel 2030, ma quella solitudine non è riuscita a sopportarla”.

No. Quello di Susan John non è stato uno “sciopero della fame” annunciato con comunicati. Il suo rifiutare acqua e cibo non era una critica al sistema. Era semplicemente sconforto, solitudine, fragilità. E così, per diciotto giorni, ha lasciato lì il carrello dei pasti. Senza toccare nulla. Nemmeno un bicchiere d’acqua. Rifiutando anche medicine e supporto psicologico.

L’avvocato Manuel Perga, che insieme al legale Wilmer Perga ha seguito la vicenda processuale della donna, parlava di un “crollo psicofisico cui non è stata prestata sufficiente attenzione”. Poche ore dopo la morte di Susan John, nella sezione femminile del Lorusso e Cutugno, era stata trovata morta un’altra detenuta, Azzurra Campari, ventotto anni. Con alle spalle qualche furto e una pena sino al 2024, era stata trasferita a Torino da Ponte Decimo di Genova il 29 luglio. Si era tolta la vita impiccandosi. Anche su questa vicenda le indagini sono in corso. Mentre i problemi del carcere della città restano lì: penitenziario difficile. Sovraffollato. Con personale che scarseggia, spazi angusti, vecchi, dai muri scrostati. E fragilità e solitudini che restano invisibili.