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di Marina Lomunno

La Voce e il Tempo, 31 agosto 2023

La visita allarmata del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il dolore dell’Arcivescovo Repole: “non possiamo abituarci a queste notizie”. La lotta del volontariato Caritas per rompere la solitudine. Ancora una volta due nostre sorelle non hanno trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi se non la morte.

Mentre ci raccogliamo in preghiera per loro, diamo voce allo scandalo per due decessi che interpellano tutti. Non possiamo ‘abituarci’ a queste notizie: in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte, ma deve trovare nel tempo della pena motivi speranza per il futuro come recita l’art. 27 della nostra Costituzione”. Sono le parole dell’Arcivescovo Roberto Repole diffuse il 12 agosto scorso all’indomani dei decessi, a poche ore una dall’altra, di due donne ristrette nella Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”.

“Susan, 42 anni, si è lasciata morire di fame; Azzurra 28 anni, si è impiccata. Sono tre, con Graziana 52 anni, suicida il 29 giugno scorso, le detenute che nell’ultimo mese e mezzo si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette, uno dei penitenziari italiani più sovraffollati e con il più alto tasso di suicidi. È un grido di dolore che ferisce tutti: non possiamo stare a guardare”, ha proseguito l’Arcivescovo che ha invitato la comunità cristiana torinese - che da sempre sulle orme dei nostri santi sociali si adopera tramite Caritas, volontari di alcune parrocchie, religiosi e cappellani “a stare accanto materialmente e spiritualmente ai ristretti, a coinvolgersi ancora di più: ‘Ero carcerato e mi siete venuti a trovare’ non è un’opera di misericordia ‘per addetti ai lavori’”.

Infine un appello alla responsabilità alla comunità civile ed alle istituzioni locali e nazionali che hanno in carico la gestione del sistema penitenziario e del reinserimento dei reclusi nella società: “sappiamo trattarsi di un compito impegnativo, ma è una sfida necessaria per la sostenibilità della nostra convivenza ed una responsabilità nei confronti delle generazioni future”.

La tragica morte delle due donne nella torrida estate italiana - dove le condizioni di vita in cella, già al limite, si aggravano - ha scosso la città e il Paese tanto che il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è precipitato alle Vallette il 12 agosto promettendo interventi per migliorare il sistema carcerario in emergenza da decenni. All’indomani dei funerali nella parrocchia Immacolata Concezione e San Donato di Susan, venerdì 25 agosto, abbiamo parlato della situazione al “Lorusso e Cutugno” con Wally Falchi, responsabile del Centro d’Ascolto della Caritas diocesana “Due Tuniche”, da anni impegnata nell’assistenza e nel reinserimento dei reclusi. “L’ingresso in carcere - ci ha detto - per le donne, ma anche per gli uomini rappresenta spesso una risposta mancata a situazioni di povertà grave, disagio, problematiche psichiatriche, dipendenze e inserimento nel contesto sociale.

Le donne vivono la detenzione in solitudine estrema: spesso sono madri, con famiglia e genitori a carico anziani e l’abbandono dei propri cari le rende più fragili”. È noto che la solitudine e i suicidi in carcere sono strettamente connessi: la prima è ritenuta una causa principale dei secondi e numerosi studi registrano che il tasso di suicidio in carcere è superiore rispetto alla popolazione generale e la solitudine è uno dei principali fattori di rischio, come evidenzia Wally Falchi.

Che prosegue: “Alcuni anni fa, all’inizio del nostro servizio in carcere come Centro d’ascolto, al termine di un colloquio con un detenuto segnalatoci dalla sua educatrice per un eventuale progetto di reinserimento, il signore mi disse: ‘grazie per essere venuta: anche se non riuscirà ad aiutarmi, io sono contento. Da tre anni non vedevo nessuno dal mondo esterno, i miei parenti vivono lontano e sono poveri, non ho nessuno. Grazie per avermi incontrato e ascoltato’.

Ero senza parole, un uomo solo senza nessuno e senza speranza, che mi guardava negli occhi con immensa tristezza”. La solitudine e il tempo della pena che non offre opportunità di rieducazione, dunque sono le emergenze da affrontare dietro le sbarre. È sempre più elevato il numero di donne e uomini senza dimora che, quando escono dall’Istituto penitenziario, non hanno legami, sostegno, affetti: “elementi necessari per ripartire, voltare pagina, iniziare una nuova vita. L’uscita con una rete di legami già avviati quando si è ‘dentro’ e magari con un lavoro permette ai ristretti di riacquisire dignità”, aggiunge Falchi. “Per questo facciamo un appello alle aziende per l’inserimento di tirocini per detenuti”.

La presenza capillare nel territorio della Caritas diocesana è un’antenna sulle nuove forme di povertà e sulle situazioni di frontiera spesso invisibili perché contenute, appunto, in un istituto di pena, microcosmo dei mali della nostra società. Attraverso il Centro d’ascolto “Due Tuniche” e la disponibilità di volontari, la Caritas si prende carico di alcuni bisogni dei detenuti, un servizio che potrebbe essere “pubblicizzato” maggiormente nelle parrocchie come ha invitato l’Arcivescovo. “I due protocolli d’intesa che abbiamo firmato con il penitenziario torinese e con Atc”, illustra Wally Falchi, “prevedono principalmente attività di ascolto e interventi su supporti e avviamenti lavorativi, volontariato restitutivo, affiancamento e sostegno di persone sole per adempiere al regolamento regionale degli assegnatari per non perdere l’abitazione durante il periodo di detenzione. E poi inserimenti nella nostra struttura ‘Casa Silvana’ in caso di permessi premio”.

Caritas ha scelto di sostenere i ristretti attraverso apposite convenzioni con il Tribunale e l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Torino Cuneo e Asti per l’accoglienza di reclusi a lavori di pubblica utilità o a misura di messa alla prova e di volontariato restitutivo. “Proprio il volontariato restitutivo può essere uno strumento importante dove le nostre comunità, parrocchie, associazioni e centri d’ascolto potrebbero essere coinvolti”, indica Wally Falchi.

“Ci sono tanti reclusi che vogliono cambiare vita davvero: uno di loro mi ha detto recentemente: ‘Voglio pagare la mia pena ma uscire migliore e non peggiore, ritornare alla società e non odiare la società’. Siamo consapevoli che i nostri interventi sono una goccia dentro il mare però questa goccia a volte può recare un sollievo, ridare coraggio e aprire una piccola speranza per andare avanti. Tutti possiamo contribuire a dare speranza di vita oltre le sbarre”.