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di Andrea Rossi

La Stampa, 12 novembre 2023

Nella cittadella del bene grande come quindici campi da calcio: “Aiutavamo gli scartati dalle famiglie, oggi chi non è tutelato dallo Stato”. C’è un registro che annota quando tutto ha avuto inizio. “Giuseppe Dana, calzolaio, malato di tisi, ricoverato il 17 gennaio 1828 e dimesso il 9 aprile. Guarito”. L’ultima persona ad aver bussato è una donna: ieri sera ha chiamato il centralino presidiato da suor Giuseppina. “Cercava un posto dove dormire. Telefonano in tanti e per tante cose, a volte solo per una preghiera”.

Il chilometro quadrato dei santi sociali di Torino si stende quasi tutto dietro Porta Palazzo: lì hanno lasciato le proprie tracce Giovanni Bosco, i marchesi Giulia e Tancredi Falletti di Barolo, Giuseppe Cafasso. Poco distante c’è il Sermig. Nel mezzo la Piccola casa della Divina Provvidenza fondata da Giuseppe Benedetto Cottolengo. La spalla su cui Torino (e non solo) cerca conforto. Una cittadella di 112 mila metri quadrati - quindici campi di calcio - che somiglia a una fortezza: mura alte, cunicoli sotterranei, camminamenti sopraelevati che in 190 anni hanno dato vita a leggende e credenze. Il ricovero dei mostri, ad esempio. “Ma io, che sono qui da quarant’anni, non ne ho mai visto uno. In compenso ne ho visti fuori da qui”, sorride don Carmine Arice, Padre generale della Piccola casa, eletto nel 2017 per guidare un’istituzione che ha ramificazioni in tutta Italia, 31 missioni e 43 comunità in quattro continenti ma il cui cuore è incardinato a Torino, quartiere Valdocco.

Nati da un gesto concreto - La “valle degli uccisi”: nel 1800 era un luogo infestato da corsi d’acqua malsani, violenza, perdizione. Ma i terreni costavano poco, ed è lì che Giuseppe Cottolengo trasferì le due stanze aperte in via Palazzo di Città. Aveva dato l’estrema unzione una donna francese di 35 anni. Si chiamava Maria Gonnet, aveva tre figli e un quarto in grembo: tutti gli ospedali l’avevano rifiutata. Quella sera Cottolengo cambiò la sua vita e anche un pezzo della storia di Torino.

“La sua casa accoglieva chi era stato respinto altrove, chi non aveva rifugio. Le vittime della cultura dello scarto, come direbbe papa Francesco”, racconta padre Arice. “Lo facciamo ancora oggi”, anche se ora lo scarto non è chi viene rifiutato dalla propria famiglia ma chi lo Stato non può o non sa proteggere e chi - anche il più coraggioso - da solo non riesce ad accudire: un anziano colpito da devastanti malattie degenerative, una persona con una grave disabilità, un bimbo fragile. Tutti trovano un posto in questo grande villaggio della mescolanza in continuo movimento, dove chiunque viene accolto in base alle proprie necessità, dove la suora a riposo guarda i bambini a giocare a pallone, il migrante musulmano dà una mano a chi non gli ha chiuso la porta in faccia, il laico incontra il religioso, il bambino delle elementari fa la recita per gli anziani della Rsa e il vecchio volontario trasmette ciò che ha e che sa a un ragazzo disabile. Una città che solo in apparenza vive di vita propria e agisce in nome di una parola che corre sulla bocca di tutti: “Provvidenza”.

Un pasto, un vestito, un paio di scarpe - La porta del Cottolengo è aperta per chi non ha un medico cui rivolgersi oppure non ha soldi per il dentista. Anna Ferraro, dopo quindici anni da assistente sociale nelle Rsa, guida il centro d’ascolto. A lei fanno capo la mensa che serve 70 mila pasti l’anno, il dormitorio, il punto che distribuisce vestiti e scarpe a 2800 persone in un anno e quello che dona 2500 pacchi viveri. “All’inizio mi dicevo: sei una tappabuchi, dai un pasto, un vestito, e poi? Poi ho capito che per queste persone siamo una famiglia, chi si prende cura di loro, la porta aperta verso la strada”. E la strada, da qualche anno, è sempre più affollata. “La marginalità cresce. Persone precipitate dalla propria realtà, senza più certezze: lavoro, casa, famiglia”.

Un ospedale e una Rsa - Qui nessuno pensa di avere soluzioni definitive. Ma, instancabile, agisce. Emerge un bisogno? Si cerca una risposta. Due anni fa è stata aperta una specie di officina. L’hanno chiamata “Ci manca 1 rotella”, perché tra l’altro questo è un villaggio che coltiva l’ironia e rifugge la cupezza. Si stoccano carrozzine, deambulatori, stampelle a disposizione di chi è in difficoltà o in attesa dell’Asl. L’ospedale che Cottolengo aveva eretto per assistere gli ultimi è diventato un polo da 450 mila prestazioni l’anno, con punte di eccellenza: “Formiamo gli infermieri per conto dell’Università, siamo la seconda struttura in Piemonte per la cura del tumore al seno e l’unico privato accreditato con un reparto di lungodegenza”, rivela padre Arice. “Ma soprattutto garantiamo le specialità poco remunerative dal punto di vista economico. Almeno finché la Provvidenza ce lo permette”. È il faro che guida anche le residenze per anziani, dove ciascuno contribuisce a seconda delle sue possibilità. “Le rette sono stabilite quasi su misura, dopo un’analisi della situazione economica dell’ospite”, spiega il direttore Giovanni Tarantino. “L’eventuale differenza è a carico nostro”.

Gli immensi dedali del Cottolengo sono un luogo di visionarie invenzioni. Quasi tutto è nato come reazione a un’esigenza che nessuno sapeva come soddisfare. “Avevo vent’anni, facevo la fisioterapista”, racconta suor Clara. “C’erano tante ospiti con la sindrome di down, era difficile fare attività con loro, serviva un posto accogliente e dover poter lavorare con pesi più leggeri. Noi giovani suore abbiamo insistito per realizzare una piscina d’acqua calda a uso terapeutico”. La prima in Italia, oltre cinquant’anni fa: lunga venti metri, larga cinque. “Di grandi così non se ne fanno più: motivi igienici, mantenerla richiede uno sforzo immenso. Ma è stata una svolta; qualche tempo dopo abbiamo cominciato a fare terapia anche con i disabili. All’epoca non esisteva niente di simile, i fisioterapisti venivano a imparare qui”. Anni dopo si è posto un nuovo problema: come aiutare i ragazzi autistici ad avere una chance di futuro oltre la scuola. Don Andrea Bonsignori ha immaginato di sfruttare una delle principali doti di chi soffre di questo disturbo: la dedizione alla precisione. “Chi è il miglior caricatore di un distributore automatico di bevande e snack se non un ragazzo autistico?”. Così è nata un’impresa sociale - che oggi vive di vita propria fuori dal Cottolengo - partita da tre apparecchi e arrivata a gestirne oltre mille. “Dovevamo dare non una speranza, ma una risposta oltre queste mura. I ragazzi finivano la scuola dopo 10-15 anni di integrazione e dopo? In questo Paese chi soffre di disturbi mentali e la sua famiglia sono persone sole”. La stessa filosofia, ma con una prospettiva opposta, ha portato ad aprire un’officina meccanica: “L’idea venne con Sergio Marchionne: far arrivare qui ragazzi con la passione per i motori e insegnare loro la manutenzione di primo livello, il tagliando, perché poi potessero trovare a lavoro nelle officine”.

La filosofia nello sport - Nel 1997 don Andrea ha fondato la Giuco, oggi una delle sei associazioni sportive in Italia dove i ragazzi normodotati e disabili giocano insieme: calcio, basket, volley, rugby, arti marziali, danza. “L’idea era declinare nello sport la nostra filosofia, perché almeno fino a una certa età l’integrazione può funzionare: non si crea un gap tra i ragazzi, anzi, si tirano fuori risorse inattese”. La dimostrazione è che tre atleti della Giuco quest’anno hanno esordito nella nazionale under 20 di rugby.

La scuola che non fa la differenza - La Giuco altro non è che un’appendice di ciò che avviene nelle classi materne, elementari e medie delle undici scuole cottolenghine in Italia. La più grande è dentro la cittadella di Valdocco: circa 400 ragazzi, il 13% ha una forma di disabilità. “Nelle scuole pubbliche la percentuale scende al 3,5%, nelle paritarie all’1,5”, spiega don Andrea. “Quasi la metà delle famiglie non paga nulla o usufruisce di uno sgravio. E ciononostante tanti ci scelgono anche se non hanno problemi economici perché diamo un’istruzione di qualità”. E non solo. “Un genitore mi ha detto che qui suo figlio è riuscito a capire di non essere sfortunato ad avere solo sei paia di scarpe ma fortunato perché ha due piedi in cui indossarle”. Hanno scelto uno slogan che è il rovesciamento della cultura dominante: “La scuola che non fa la differenza”. “Il Cottolengo spesso è stato visto come un ricettacolo di sfigati”, ragiona don Andrea, “ma al contrario è un luogo in cui la convivenza civile e l’accoglienza della diversità diventano qualcosa di reale. E dove tra chi ha un disturbo e chi no a guadagnarci di più da questa convivenza forse è quest’ultimo”.

Quest’incessante opera - che include altri servizi, dall’housing ai progetti di autonomia per donne con disabilità, dai 400 alloggi affittati a prezzi calmierati ai centri di accoglienza per donne in difficoltà - per padre Arice ha un nome: investimenti carismatici. “Ciò che si fa per l’utilità collettiva, per chi ha poco o nulla da dare in cambio”. Come gli ospiti “storici”, nati e vissuti qui, o i religiosi che dopo essersi consumati per gli altri ora vengono accuditi. “Continuiamo a seguire l’esempio del Cottolengo: costruire ciò che manca, rispondere alla domanda che la città ci rivolge”. Oltre 190 anni fa il bisogno era accogliere gli invalidi, i ciechi, gli orfani; oggi è l’includere i bambini autistici, curare la vita fino al suo passo finale. Le ultime due strutture inaugurate sono un hospice, a Chieri, e uno studentato con 180 posti, appena aperto e già pieno. “In questo caso la necessità era offrire posti letto a prezzi accessibili agli studenti”, spiega Roberta, 30 anni, che dopo otto anni di volontariato ha trovato lavoro proprio allo studentato. “Dopo la laurea in Economia cercavo un progetto sociale per cui spendermi. Averlo trovato qui, dove mi sento a casa, è la cosa migliore che mi potesse capitare. Qui c’è una possibilità per tutti e una cura per tutto”.

Anche in questo intreccio di religiosi e laici c’è il segreto di un immenso villaggio che guarda avanti tornando sempre alle origini. Cottolengo aveva iniziato la sua opera circondandosi di laici: medici, geometri, ricchi nobili che elargivano donazioni. Per dare continuità ha poi fondato 12 famiglie religiose. “Ma ora che la nostra presenza si è fatta più esigua è cresciuto nuovamente il peso dei laici, come alle origini”, rivela suor Maria Teresa, un’altra colonna di questa istituzione che conta in totale circa 900 suore, un centinaio di preti, quasi 2500 collaboratori. E più di mille volontari, meno di un tempo, eppure tenaci, come Carlo De Grandi, che a 93 anni viene ancora tutti i giorni. “E non solo io: ci sono mia moglie, mio figlio e mia nuora”. Da quarant’anni Carlo, ex bancario, dà una mano a chi tiene i conti di un’istituzione con un bilancio di 150 milioni. “Perché continuo? Semplice: in questo luogo respiro pace e serenità”.

“Qui si dà un senso alla vita. O lo si recupera. Con l’aiuto della Provvidenza”, dice suor Maria Teresa. Già, la Provvidenza. È ciò cui ci si aggrappa quando servirebbero le risorse o quando bisogna spiegare quel che in apparenza spiegazione non ha. “Qualche sera fa è arrivata una richiesta per un progetto; ci chiedevamo dove avremmo preso i soldi quando è arrivata una sorella con un sacco pieno di vestiti e una busta piena di banconote. Poco tempo fa in magazzino è arrivato un paio di scarpe gigantesche, pensavamo non sarebbero mai servite e invece il giorno dopo si presenta un migrante dai piedi enormi; gli calzavano perfettamente. Vede cosa fa la Provvidenza?”. O forse sono i frutti dell’opera incessante di queste persone.

A Torino anni fa per etichettare una persona stupida non era raro che venisse usata la parola “cutu”. Era come dire, sei uno del Cottolengo, retaggio di quella credenza secondo cui queste mura tenevano il resto del mondo al riparo da ciò che non si doveva né poteva vedere. È un’etichetta che per decenni ha accompagnato il Cottolengo. “A volte c’è bisogno di figurarsi qualcosa di straordinario per giustificare la normalità del bene”, riflette suor Maria Teresa. Padre Arice non si scompone: “In fondo vuol dire che i torinesi a questo posto vogliono così bene e vi sono così legati da averlo fatto entrare nel loro vocabolario”. Perché è la spalla su cui sanno di potersi appoggiare quando intorno non resta più niente.