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di Irene Famà

La Stampa, 12 novembre 2023

L’appello della Garante comunale dei detenuti: “Mancano le condizioni di accoglienza e supporto per affrontare certi disagi”. “In carcere le fragilità si acuiscono, il disagio si aggrava”. La considerazione della garante comunale dei detenuti Monica Gallo è amara. Così com’è impostato, il sistema “non riabilita”. La chiusura delle indagini sulla morte di Alessandro Gaffoglio, ventiquattrenne che ad agosto dell’anno scorso si è impiccato nella sua cella al Lorusso e Cutugno, impone delle riflessioni. Il ragazzo, recluso su misura cautelare per due rapine in un supermercato a San Salvario, soffriva di problemi psichici. E il suicidio l’aveva già tentato appena arrivato, nella sezione dei “nuovi giunti”.

Le fragilità mentali in carcere sono aumentate. “Non è una condizione relativa solo ai detenuti”, spiega Monica Gallo. E pensa agli effetti della pandemia su molti giovani. “In carcere, però, non ci sono le condizioni di accoglienza e di supporto adeguate ad affrontare certi disagi”. E il penitenziario torinese non fa eccezione con 21 medici di base, 18 specialisti e cinque psichiatri per oltre 1.400 detenuti. E uno spazio sanitario, il Sestante, con appena una ventina di posti. Per la morte di Gaffoglio, la procura ha indagato la psichiatra del carcere. Alla dottoressa, difesa dall’avvocato Gian Maria Nicastro, i magistrati contestano omissioni e sottovalutazioni nella valutazione del rischio.

La garante analizza i numeri del Lorusso e Cutugno: “Servono più psichiatri, psicologi, educatori, ambienti più idonei e condizioni dignitose di vita”. E aggiunge: “Sarebbe opportuno riflettere su possibili strutture “intermedie”, dove prendersi cura delle persone detenute con disagio mentale e problemi legati alla tossicodipendenza, e doppia diagnosi”. Ad esempio? “Penso a strutture alternative comunitarie di cura, di accoglienza, di controllo. Oppure optare di più per gli arresti domiciliari e uso del braccialetto elettronico”.

Alessandro Gaffoglio, assistito dall’avvocata Laura Spadaro che ora rappresenta il padre del giovane, prima era stato ricoverato nel reparto sanitario, poi gli era stata assegnata una cella costantemente monitorata. “Ha tentato di danneggiare se stesso, non gli altri. Non era un pericolo per chi gli stava attorno, per cui non avrebbe dovuto essere lasciato solo”. Con i suoi pensieri. Le sue paure. I suoi incubi. “Il primo impatto con il carcere è disorientante. Ti priva improvvisamente della libertà, dei legami affettivi, dell’armonia e dell’equilibrio. In questo contesto, certe situazioni si aggravano molto velocemente”.

Il ventiquattrenne non stava scontando una pena definitiva, non aveva nemmeno ancora affrontato un processo: il giudice aveva convalidato il fermo dopo l’arresto per rapina in attesa di capire come procedere e di inserirlo in una comunità. Ma non c’era posto. “Questo è un altro grande problema. Ed è evidente soprattutto al minorile”, sottolinea la garante. “Tanti giovani detenuti potrebbero scontare la pena altrove, in luoghi più adeguati a loro. Ma i posti non ci sono. E gli spostamenti fuori Regione sono estremamente costosi in termini economici e umani”.