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di Davide Ferrario

Corriere Torino, 9 ottobre 2023

Mercoledì la proiezione al Massimo, nell’ambito del festival Liberazioni, di “Tutta colpa di Giuda”, che girai nel 2008 nel carcere delle Vallette. Lo so, la settimana entrante, per il cinema a Torino, sarà quella di Tim Burton. Purtroppo, una programmazione fatta con largo anticipo farà coincidere mercoledì la masterclass del suddetto con la proiezione al Massimo, nell’ambito del festival Liberazioni, di “Tutta colpa di Giuda”, che girai nel 2008 nel carcere delle Vallette.

Il film ha come protagonisti Kasia Smutniak e Fabio Troiano, nonché Luciana Littizzetto nei panni di una suora: ma, soprattutto, veri detenuti e veri agenti del Lorusso e Cutugno. Forse dovrei lamentarmi del destino, ma non lo faccio: anzi. Trovo che ci sia una sorta di poetica casualità in questa coincidenza, nel fatto che la fantasia di Burton possa convivere, per una sera, con lo sbilenco realismo del mio film. È la forza del cinema, che riesce a tenere insieme marziani, fantasmi e carcerati.

D’altra parte Tutta colpa di Giuda non è certo un esempio di tradizionale film di denuncia. È una specie di musical il cui vero tema è la religione, e che solo in carcere poteva svolgersi come volevo. L’ho girato dopo dieci anni di volontariato, prima a Milano a San Vittore e poi alla Vallette. Il film non è mai stato l’obiettivo della mia attività, è solo successo a un certo punto: ma nel farlo ho potuto metterci dentro un decennio di esperienze e di relazioni. Credo che, alla fine, il commento più bello sia stato quello di chi nel carcere ci vive e ci lavora (detenuti, personale, dirigenti): e cioè che quello che si vede nel film è come davvero si sta “dentro”. Purtroppo, rispetto ad allora, la situazione al Lorusso e Cutugno, ma non solo, è peggiorata in maniera terribile.

Il carcere di Torino è diventato uno dei più problematici in Italia: e vedere oggi “Tutta colpa di Giuda” può dare la dimensione di cosa potrebbe essere una galera non abbandonata a se stessa. C’è stato un decennio, il primo di questo secolo, in cui amministrazioni illuminate e una società meno giustizialista hanno prodotto un’idea di detenzione che non fosse solo pena e vendetta, ma anche un tentativo di recupero dei “ristretti”, come si dice in gergo, a termini di Costituzione.

Non che fossero rose e fiori. Alcune, troppe facce presenti nel film non ci sono più, perse nei gorghi della vita. Si è suicidato Rodolfo, uno dei detenuti. Ma è morto anche uno degli agenti, nel terribile omicidio-suicidio nella mensa del carcere del dicembre 2013. Non ho mai dato retta a chi cercava di strapparmi una dichiarazione politicamente corretta sul carattere salvifico dell’arte in galera, non è un film che risolve i problemi.

Ma una cosa la posso e la voglio dire. Per le settimane che abbiamo preparato e girato Giuda, qualcosa era cambiato, dentro, e in meglio. E so esattamente perché: perché tutti collaboravamo, ciascuno a modo suo, a un progetto. Avevamo un obiettivo e ci davamo da fare per raggiungerlo insieme. Il vero problema del carcere non è la privazione della libertà: è l’inutilità.

Il tempo che non ha senso, che si riempie come si può, con la noia, con le droghe illecite e con quelle lecite delle “terapie” fornite dall’istituto; con l’annullamento di se stessi, sotto forma banalmente quotidiana - oppure estrema, con il suicidio, sempre più frequente, proprio a Torino. Se qualcosa di buono è venuto fuori da quell’esperienza (oltre al film in sé, spero) è stata proprio la condivisione, tra chi stava dentro e chi veniva da fuori, di un tempo positivo, rivolto alla realizzazione di qualcosa, qualcosa che desse senso alla giornata.

È durato quello che è durato, ma nella vita nulla dura per sempre. Resta, appunto, il film. E se qualcuno, dopo essersi incantato alle affascinanti storie che sicuramente racconterà Tim Burton, avrà voglia di attraversare via Verdi ed entrare al Massimo, scoprirà forse un mondo che, nella sua quotidianità, è più sorprendente di qualsiasi stravaganza hollywoodiana.